Parla la scrittrice
“Fame morte e terrore: Gaza come il mio lager in Giappone”, parla Dacia Maraini
“È stata la guerra, quello che accade nella Striscia, a spingermi a raccontare degli anni che la mia famiglia passò in un campo di concentramento. Dolore, abbandono, ossa che si spezzano: certe cose che vissi allora le ritrovo nei gazawi annientati e ridotti a cose da Israele”
Interviste - di Graziella Balestrieri
Verrà presentato alla Festa del Cinema di Roma Dacia, Vita mia – Dialoghi giapponesi, per la regia di Izumi Chiaraluce. Un docu-film che riprende le pagine dolorose della scrittrice Dacia Maraini, tratte dal libro Vita mia, che racconta i due anni che la piccola Dacia (allora ne aveva sette) ha vissuto in un campo di concentramento giapponese, a partire dal 1943, insieme alle due sorelle più piccole e ai genitori. La famiglia Maraini finisce in un campo di concentramento per il rifiuto del padre, Fosco Maraini, antropologo, orientalista, poeta e fotografo e di sua moglie, Topazia Alliata di Villafranca, gallerista e pittrice palermitana, di aderire alla Repubblica di Salò. Ma il romanzo – così come il docu-film – è tremendamente e orribilmente attuale. Della fame che lascia segni indelebili ieri come oggi per chi riesce a sopravvivere, delle guerre, che sono tutte uguali, del razzismo, delle battaglie, del futuro a cui bisogna guardare ancora e delle figure che tengono in pugno il nostro destino, parliamo con la scrittrice Dacia Maraini.
Dacia, Vita mia-dialoghi giapponesi- è tratto dal suo libro Vita mia: come è stato affrontare attraverso la scrittura i due anni che lei ha trascorso in un campo di concentramento?
Da principio rimandavo sempre di parlarne perché era doloroso. Poi però mi sono detta che dovevo concludere questo libro, questa testimonianza, perché siamo in un periodo pericoloso di guerra. Una guerra c’è già, per ora soltanto minacciata, però siamo in fase di pericolo di guerra. E allora ho pensato che fosse importante e utile tirar fuori la mia testimonianza, perché io la guerra l’ho vissuta. Volevo far sapere ai giovani che cosa può essere davvero la guerra. In seguito mi sono accorta che scriverne mi faceva anche bene perché sono riuscita a prendere le distanze. Scrivendo, sono venuti fuori dei ricordi che avevo cancellato immediatamente.
Il bisogno di ricordare è legato anche alla scarsa memoria delle tragedie del passato che sembra caratterizzare questo periodo così appassionato ad armamenti e prove di forza?
Sì. La cultura del consumo, quella in cui viviamo e che è stata denunciata da Pasolini odia la memoria, non la vuole la memoria: il bravo consumatore non deve affidarsi alla memoria, perché la memoria crea consapevolezza, crea coscienza, e quindi la memoria dev’essere scoraggiata. Per questo, secondo me, praticare la memoria in questo momento è un atto di resistenza culturale.
Sono passati due anni dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas ha compiuto uno degli atti più atroci e violenti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e che poi ha scatenato l’inferno che ora sta vivendo Gaza, i gazawi e i palestinesi.
Sì, è stata una cosa orribile, veramente orribile, l’attacco di due anni fa. Secondo me, però non bisognava rispondere con la vendetta, ma con la giustizia: questo è il punto. L’errore gravissimo che sta facendo Netanyahu è di praticare la vendetta. Tutto nasce da una furia di vendetta. Ma tutto ciò non va bene, perché la vendetta è un sentimento arcaico, animalesco. Oggi bisogna praticare invece la giustizia. Naturalmente uno si chiede: come si può praticare la giustizia? Se l’Onu funzionasse secondo le regole democratiche, cioè a maggioranza, potrebbe fermare una guerra. Invece purtroppo esiste il veto: l’Onu funziona col veto e quindi è tutto bloccato. Però alla base di tutto questo orrore c’è l’errore gravissimo dell’idea che bisogna vendicarsi. Netanyahu pensa che deve vendicare quello che è avvenuto il 7 ottobre. Invece, occorreva fare giustizia: colpire i responsabili senza prendersela con gli innocenti. Perché la vendetta poi se la prendono e la subiscono tutti, è indiscriminata: è questo l’errore gravissimo.
C’è molta attualità nel suo libro, di quei due anni vissuti in un campo di concentramento giapponese nel ‘43: la parola fame, ad esempio, che è una cosa quasi che si tocca, la si sente e che oggi fa pensare immediatamente a come Netanyahu abbia ridotto alla fame il popolo palestinese.
Avrei volevo intitolare il libro proprio così, Fame. Poi l’editore disse che c’erano altri libri che erano usciti con questo titolo e alla fine mi ha scoraggiato, però per quanto mi riguarda il titolo del libro doveva essere proprio quello, Fame, perché in effetti è la cosa di cui più abbiamo patito. C’erano anche le bombe, c’erano i terremoti, c’erano le punizioni, le umiliazioni, ma quello che veramente ci ha tenuto fra la vita e la morte era la fame, perché la fame porta malattie, la fame non è soltanto appetito, non è che uno dimagrisce e basta. No, c’è il Beriberi, lo scorbuto e cominci a sanguinare: sanguini dal naso, sanguini dalle gengive, vanno via i muscoli dal corpo, le ossa si indeboliscono. Dopo il campo di concentramento mi sono rotta tre volte la gamba e il polso, perché le ossa, senza minerali, si erano indebolite. La fame è stata il nostro tormento per due anni e mi ha segnato anche fisicamente, perché ancora ne soffro. Per fortuna ho il cuore forte, ma non le ossa.
Quello che racconta in Vita mia è molto importante, anche per capire cosa significa davvero quello che vivono i palestinesi nella Striscia, dove di fame si muore.
Si muore di fame perché il corpo non ha più difese, non ha più nutrimento, e poi si muore di malattie, perché la fame indebolisce a tal punto il corpo, che basta una piccola infezione e si muore. Ma la fame è qualcosa che i superstiti si porteranno per sempre. Non ci sono solo conseguenze fisiche, se si riesce a sopravvivere alla fame, ma anche psicologiche.
Quando sente parlare di campi di concentramento sui giornali (pochi) e in tv (raramente) a proposito della Palestina, sente affinità con l’esperienza che ha vissuto lei o sono due cose completamente diverse?
La guerra è sempre uguale, colpisce gli innocenti, colpisce i deboli, e di campi di concentramento purtroppo in questo momento ce ne sono tanti, ci sono i campi che chiamano di rifugio, ma in realtà sono dei campi dove la gente ha perso la casa, ha perso tutto, e sta lì, messa sotto le tende e abbandonata a se stessa. Quello è praticamente un campo di concentramento. Un discorso che vale anche per l’Ucraina, e le bombe che stanno distruggendo tutto. E le persone alla fine cosa possono fare? Scappano, ma se non possono scappare, poi le mettono nei campi. Campi di concentramento dove non si può uscire, non si può più avere la vita che si aveva prima.
È d’accordo con il termine genocidio?
Sono d’accordo, certo. Perché il genocidio sa cosa vuol dire? Uccidere una popolazione. Naturalmente la Shoah fu un genocidio perpetrato in base a questioni razziali. Questo è un genocidio dovuto a ragioni non razziali, ma a ragioni territoriali. Gli israeliani vogliono occupare tutto il territorio che invece era stato suddiviso, metà agli israeliani e metà ai palestinesi. Vogliono quella terra lì ad ogni costo.
La figura centrale cui si aggrappa il mondo, nel bene e nel male è la figura di Donald Trump: è un segno di decadimento culturale, politico o cosa?
Lo considero sia un decadimento culturale che politico. In primo luogo parliamo di una persona che usa un linguaggio che non è un linguaggio dignitoso, ma un linguaggio di disprezzo verso gli altri, di odio, di incitazione all’odio, di condanna per tutti quelli che non la pensano come lui. Questo è un linguaggio che non può stare nella bocca di un presidente della Repubblica, in questo caso, di un presidente degli Stati Uniti. Come scrittrice sento molto la questione del linguaggio: detto altrimenti quello di Donald Trump è un linguaggio da persona indegna di stare nel posto dove sta. Una persona che rappresenta un paese intero, abitato da alcune centinaia di milioni di abitanti deve parlare con responsabilità e con dignità. Non può parlare il linguaggio di un passante qualsiasi, come se fosse uscito da un bar qualunque o, peggio, da una bettola. Non è possibile. In secondo luogo colpisce la sua volubilità. Trump dice una cosa un giorno e il giorno dopo la cambia. Se la prende con uno, poi dopo se la prende con un altro. Condanna una persona e poi il giorno dopo gli dice che è il suo migliore amico. Anche questo non è degno di una persona che rappresenta un paese come l’America. Non è serio. Tutti quelli che dipendono da lui non capiscono cosa devono fare. Se un giorno lui dice di essere amico, il giorno dopo è nemico e alza il dazio, poi l’altro giorno lo abbassa: “tu fai questo, questo sì, questo no!”. Trump si sta comportando come una persona irresponsabile. Ecco, è l’unica parola che posso dire: ha un comportamento irresponsabile e non degno di un presidente di un grande paese come l’America.
L’Europa però non riesce a fare niente contro Trump.
L’Europa deve essere più unita, più autonoma. Non dovrebbe dipendere dagli Stati Uniti. Ricordiamoci che noi viviamo ancora una condizione figlia della guerra fredda, della divisione del mondo in due. Eravamo, dopo la guerra, dalla parte degli alleati che erano gli americani. L’altra parte erano i russi e per questo abbiamo sviluppato tutta la nostra cultura in base alla cultura americana. Il nostro secondo linguaggio internazionale è l’inglese. Tutto il mercato della cultura, i libri che leggiamo, i film che vediamo, le musiche che ascoltiamo sono tutte provenienti dalla cultura americana. Questo è il risultato di una divisione che è stata fatta dopo la guerra. Adesso le cose stanno evidentemente cambiando, e probabilmente, soprattutto dopo l’avvento di questo “uomo”, Trump, che non dimostra nessuna simpatia per l’Europa, penso che l’Europa debba rafforzare la sua indipendenza, la sua unità.
In che modo?
L’abbiamo fatto con l’euro, l’abbiamo fatto con l’Erasmus, l’abbiamo fatto con Schengen. Intanto bisognerebbe fare una Costituzione europea, che è necessaria. Ci vogliono delle leggi che riguardano proprio i valori europei da difendere. Ci sono già i valori della democrazia che adesso sono messi un po’ in pericolo, però l’Europa è nata sull’idea democratica. La base dell’Ue è stata fatta sul principio che questi paesi, che si sono sempre fatti la guerra, si sono riappacificati e hanno fatto un’alleanza. Noi dovremmo insistere e rafforzare l’Europa, non metterla in mano a questo o a quell’altro, perché se la levi dalle mani dell’America finisce nelle mani della Russia o della Cina. L’unica nostra alternativa è quella di rafforzare l’Europa dal punto di vista culturale, perché abbiamo delle grandissime ricchezze culturali, ma anche dal punto di vista etico, basta pensare alle conquiste che abbiamo fatto con i diritti civili. E poi da ultimo, se c’è bisogno, anche una difesa comune. Queste sono le cose da fare. Penso che l’Europa non debba gettare via sé stessa nel dire che l’Europa non esiste più: su questo non sono affatto d’accordo, l’Europa esiste e bisogna anzi difenderla e renderla più forte.
Anche perché ha un ruolo molto importante nella storia dell’America…
L’America è stata fatta dall’Europa… da dove vengono gli americani?
Intanto l’Italia finalmente si mobilita, protesta, si mette in cammino: però questa mobilitazione che ha segnato le piazze, non ha avuto riflessi nelle urne. Come se lo spiega?
La mobilitazione è stata una grande novità ed è molto importante, perché è una dimostrazione che i ragazzi non sono in letargo, come si suol dire, e che non sono presi dai social e completamente rimbambiti. Hanno voglia di credere e di battersi per qualcosa come la libertà, indignandosi di fronte alla ingiustizia, e questo è un ottimo segnale. Quello che però manca adesso è costruire delle nuove idee condivise, perché sono le idee condivise a creare l’ideologia. Le idee condivise del passato come socialismo, comunismo, anarchia, anche la democrazia sono fallite e sono morte. I giovani non vanno più a votare, la gente non ci crede più nei partiti e nelle ideologie, e bisogna dunque ricreare un sistema di valori nuovo, al passo con i cambiamenti, considerando che la tecnologia ha cambiato tutto: l’intelligenza artificiale, il lavoro, la divisione dei compiti, il rapporto fra i sessi… È cambiato tutto, e un sistema di valori moderno non può non tenerne conto. Purtroppo ancora non ci siamo, ma il fatto che questi ragazzi si riuniscono è un buon segnale. C’erano donne con bambini, tantissimi studenti, impiegati, c’era e c’è di tutto in questa manifestazione, nessun terrorista! Poi certo ci sono alcuni delinquenti che approfittano di queste manifestazioni per fare del terrorismo e sono controproducenti, sono contro le manifestazioni, non aiutano affatto le manifestazioni, perché poi si sa che mass media prendono in considerazione solo chi ha spaccato tutto e non il resto delle centinaia di migliaia di persone andate in piazza pacificamente..
Il termine crudeltà oggi, come scrittrice dove lo vede? Netanyahu ad esempio, è un uomo crudele?
Io credo che lui non abbia dentro di sé soltanto crudeltà ma anche egoismo. Netanyahu sa che se finisse la guerra, probabilmente sarebbe processato: probabilmente ha interesse a continuare la guerra e non gli importa niente che muoiano i bambini. Sì, è crudeltà, ma non è una crudeltà fine a sé stessa, è una crudeltà finalizzata alla difesa di sé stesso. Il tratto principale è l’egocentrismo, agghiacciante, orribile, e poi quella totale indifferenza nei confronti del suo popolo, perché lui sta facendo il male del suo popolo.
Il ritorno dell’antisemitismo, appunto.
È proprio Netanyahu che produce l’antisemitismo, infatti in moltissimi e soprattutto ebrei che stanno fuori da Israele sono esterrefatti e sono disperati, perché sentono montare l’antisemitismo. Naturalmente loro non sono d’accordo con quello che si sta facendo a Gaza, non sono dalla parte di Netanyahu, solo i coloni sono dalla sua parte. Però Bibi ha un sistema di potere per cui controlla tutto diffondendo false informazioni, non facendo entrare i giornalisti, e imprigionando quelli in dissenso. La gente non sa come stanno realmente le cose. Netanyahu dice che non è vero, che non sta affamando i bambini, fa vedere fotografie diverse, mostra una realtà manipolata, e la manipolazione dell’informazione è gravissima. Ma tutto questo è tipico dei regimi dittatoriali: sta facendo il dittatore di Israele secondo gli schemi tipici che caratterizzano un regime tradizionale. Ecco perché non si può accusare tutto il popolo israeliano, di quanto sta accadendo.
In molti a destra hanno criticato e giudicato la missione della Flotilla: è una missione che andava fatta?
Certo! la Flotilla ha messo in evidenza il problema con maggiore chiarezza ed è stata una missione di una grande forza simbolica. Perché con delle semplicissime barche a vela, che non hanno armi, che cercano di portare dei medicinali e cibo a Gaza, hanno fatto un gesto di un’enorme forza simbolica. Prendersela con loro, con i ragazzi della Flotilla, è davvero una cosa criminale. Chi li ha attaccati e infamati ha messo in evidenza ancora di più la sua prepotenza, ancora di più di quello che già si vede a occhio nudo. Come ben sappiamo a Gaza non fanno entrare i giornalisti. Questo della Fotilla era anche un modo per dimostrare, di fronte ai giornalisti, cosa può succedere quando ti metti contro il regime. Che cosa è accaduto è ormai noto e incontestabile: gli attivisti sono stati imprigionati, sono stati maltrattati e probabilmente non li hanno ammazzati soltanto perché c’era di mezzo l’opinione pubblica che guardava le telecamere di bordo con il fiato sospeso a quelle persone attente, pacifiche, in un certo senso anche responsabili. Ricordiamoci che c’erano 40 paesi e simbolicamente questa azione della Flotilla è stata indubbiamente una cosa molto, molto importante.
L’altro termine, presente nel suo romanzo è il termine razzismo. L’Italia, secondo lei è un Paese razzista, oggi lo avverte come un fenomeno in crescita?
L’opposizione al razzismo è la ragione per cui noi siamo finiti in un campo di concentramento in Giappone. I miei genitori non erano politicizzati, mio padre era uno studioso ma non era politicizzato. Però odiava il razzismo: il suo odio non era politico, ma era contro il razzismo. Per mio padre il nazismo e il fascismo erano da rifiutare perché c’era di mezzo il razzismo come base ideologica. Di conseguenza non hanno voluto firmare la decisione di aderire alla Repubblica di Salò e tutti noi siamo andati a finire in un campo di concentramento. Il razzismo è insito nell’animo umano, il razzismo è la paura e quindi l’odio verso il diverso, verso lo straniero, c’è sempre stato però ci sono dei momenti in cui viene incoraggiato. La cultura, la scuola, l’educazione, la religione, nel senso buono della parola, dovrebbero essere gli strumenti per scoraggiare questo istinto che è un istinto animalesco nei confronti dell’altro. Però quando viene fuori un partito, dei partiti, che invece incoraggiano il rifiuto dell’altro, naturalmente il razzismo che c’è nell’animo umano erompe all’esterno. Una volta incoraggiato, tutto questo può portare a conseguenze orribili.