La vittoria del presidente Usa

Trump come l’Impero romano: sui dazi “divide et impera” stritolando l’Europa grazie ad alleati come Meloni

Lo costringe a pagare caro il suo aiuto approfittando del momento di massima debolezza politica dell’Europa, perché può contare su alleati codini come Meloni

Esteri - di Roberto Morassut

30 Luglio 2025 alle 10:00

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AP Photo/Patrick Semansky, File  -Associated Press / LaPresse
Only italy and spain
AP Photo/Patrick Semansky, File -Associated Press / LaPresse Only italy and spain

Mai come adesso l’Europa rischia davvero la disintegrazione politica, economica e sociale. Trump ha messo a segno un colpo durissimo che l’Europa pagherà con una dipendenza commerciale, energetica, geopolitica e strategica, in primo luogo militare, oltre che con una impennata inflattiva così violenta da mettere in ginocchio interi settori agricoli e industriali, compromettere occupazione e redditi, assottigliare ulteriormente il già esangue campo dei ceti medi e creare le basi e un nuovo carburante alla demagogia populista magari con nuovi attori e protagonisti.

Trump sta vincendo su tutta la linea. Ha preso il toro per le corna per cercare di aggredire la spirale del fantasmagorico debito pubblico americano, parlando alla frustrazione di chi è convinto che l’Europa sia il principale responsabile della perdita di potere egemonico degli Usa nel mondo, per fermare la minaccia di una economia che si allontani dal modello industriale basato sullo sfruttamento delle energie fossili; quelle riserve che invece lo scioglimento dei ghiacci nel Mare Artico rendono accessibili. Il Mare Artico, come da tempo ormai evidente, diventa il centro del confronto e dello scontro geopolitico mondiale: risorse petrolifere e gas disponibili in grande quantità, nuove rotte commerciali, nuovi scenari militari. Si spiegano così le uscite, solo apparentemente spaccone, sulla Groenlandia o sul Canada. L’affaccio delle coste sull’Artico è un grande teatro di scontro perché se le coste russe vedono già ampi settori di scioglimento e di ritiro dei ghiacci, quelle americane sono ancora lontane e frastagliate, meno accessibili. Solo l’Alaska può contare sui vantaggi della nuova situazione climatica ma rivendica grande autonomia dall’autorità federale, la Russia azzarda un ritorno della sua potestà su di essa e l’Alaska galleggia letteralmente sul petrolio.

L’Europa, composta da governi incerti o sovranisti, guidata da una Commissione debole e senza una precisa fisionomia politica ha risposto cercando una mediazione che attenuasse la violenza del partner atlantico, ma l’attenuazione è una speranza illusoria. Saremo dipendenti sul piano energetico e militare, non avremo alcuno spazio reale per costruire le basi di una difesa comune, né dell’indipendenza industriale, né di quella politica. Trump costringe il vecchio continente a pagarsi il suo aiuto e a pagarlo carissimo, approfittando del momento di massima debolezza della politica europea, perché può contare su alleati interni all’Europa codini come il Governo Meloni che gli consentono di agire con la antica logica del “divide et impera”. Esattamente come faceva l’Impero Romano con le sue province nel momento del suo massimo fulgore nel II secolo, quando offriva protezione militare a carissimo prezzo di tributi, quasi spogliando le province, favorendo al loro interno lotte intestine e il comando delle fazioni più fedeli. Questo è lo scenario che abbiamo davanti.

La catastrofe della sinistra e del socialismo europeo appare desolante nella incapacità di costruire un minimo di pensiero e di azione comune, di recitare un minimo ruolo a partire dalla vicenda palestinese, che non si può non definire un genocidio e (sia ben chiaro) senza per questo rischiare l’accusa di antisemitismo. Quel che si vede dai reportage provenienti da Gaza non può passare nella coscienza della sinistra europea senza lasciare un segno indelebile e gettare il peso della vergogna per la quasi totale incapacità di denuncia convinta se non di azione. Il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Francia e ieri della Gran Bretagna è la base imprescindibile per perseguire la politica dei “due popoli, due Stati”. È prevedibile che le conseguenze degli accordi USA-UE sui dazi si faranno sentire già dal prossimo autunno sull’economia europea ed in particolare sull’Italia per le nostre debolezze strutturali, anche fiscali, ma soprattutto per il fatto che noi siamo un paese di esportazioni e di piccola e media impresa. Già in queste ore si avverte l’allarme diffuso nel campo delle piccole imprese, prima ancora che nel mondo del lavoro strettamente inteso. Una domanda si impone su tutte, in questo pezzo rilevante e diffuso di economia italiana: come potrà essere affrontato il problema del credito e degli investimenti delle piccole imprese nel quadro di una potente ristrutturazione tecnologica e di stretta commerciale così aspra?

Il governo rischia molto, soprattutto nel nord produttivo oltre che nel Mezzogiorno che aggiunge sul piatto enormi ritardi, in primo luogo di carattere infrastrutturale. Nel 2026 finiranno gli effetti del PNRR. Ci apprestiamo con ogni probabilità ad un periodo di durissimi conflitti sociali che impongono una politica seria di riforme che solo la sinistra può cercare di interpretare in chiave nazionale ed europea: costruzione del progetto europeo, investimenti per opere pubbliche e infrastrutture, politiche di sostegno per la sanità, la scuola, il territorio, una nuova politica industriale che abbia al centro scelte ben incardinate nella prospettiva di una transizione ecologica giusta fatta di sostegni alle fasce deboli, scelte specifiche coraggiose come su ILVA e acciaio che considerino anche la possibilità di una nazionalizzazione del complesso di Taranto.

La sinistra deve prepararsi con un programma, con un’anima. Non bastano processi di costruzione di alleanze politiche difensive. La destra diverrà debole sul terreno economico e sociale e lì bisogna duramente attaccarla. Credo che a settembre il PD e i suoi organismi dirigenti dovranno affrontare il cuore di questi duri appuntamenti e della nuova fase che ci troviamo davanti. Occorre affrontare senza paure un dibattito interno strategico e di fondo anche se può comportare distanze e punti di vista dialettici che la discussione può colmare o avvicinare. Mi domando quando potremmo farlo se non ora.

30 Luglio 2025

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