La guerra commerciale
Dazi Usa, l’entusiasmo senza fondamento di Meloni: “Rischiamo di perdere 20 miliardi export e 118 mila posti di lavoro”

Sui dazi statunitensi contro l’Unione Europea, e dunque l’Italia, il rischio è di arrivare ad un muro contro muro con serissime ripercussioni per le economie nazionali. Un accordo tra le parte infatti non c’è e il presidente Usa Donald Trump è tornato a minacciare: “Non concederò deroghe dopo il 9 luglio. Scriverò lettere a molti Paesi”, le sue ultime parole.
A pochi giorni dallo scadere dell’ultimatum e all’inizio dunque di una “guerra commerciale” tra le due sponde dell’Atlantico si fatica a raggiungere un armistizio: qualche speranza c’è ancora, col viaggio in programma martedì del commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic, che volerà a Washington per incontrare domani Jemieson Greer, rappresentante Usa per il commercio, ma non Howard Lutnick, il segretario al Commercio, omologo dell’inviato Ue.
E l’Italia? In questo quadro il governo Meloni si è accodato a quello tedesco del cancelliere Friedrich Merz, il leader europeo più disposto ad una intesa con Trump per dazi asimmetrici, in sostanza una concessione enorme al tycoon: dall’altro lato della barricata a livello continentale c’è invece il presidente Emmanuel Macron, che guida quella parte di Ue che non vuole schiacciarsi sulle posizioni di Washington, che all’Europa oltre a dazi chiede anche acquisti maggiorati di gas liquido americano e di armi prodotte negli Usa.
Eppure dal mondo produttivo ed economico nostrano in queste ore, a ridosso della scadenza della deroga, si alzano voci che dovrebbero preoccupare Palazzo Chigi. In particolare quella di Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, che al Corriere della Sera sottolinea come con i dazi imposti da Trump “rischiamo di perdere 20 miliardi export e 118 mila posti di lavoro”.
Dazi che sono tutt’altro che sostenibili, spiega il numero uno degli industriali smentendo l’apparente tranquillità della premier Giorgia Meloni e dei ministri di Economia e Sviluppo economico Giorgetti e Urso. “Rappresentiamo la realtà in modo corretto: qui non si sta parlando di dazi al 10% ma al 23,5. Dobbiamo tenere conto infatti anche della svalutazione del dollaro, pari al 13,5% rispetto all’insediamento di Trump. Un prodotto che un anno fa un’impresa italiana vendeva negli Usa a 100 oggi al nostro cliente americano costa 123”, spiega Orsini. Che poi sottolinea un secondo problema: “L’Italia non esporta solo prodotti di lusso, con una domanda poco sensibile al prezzo: esportiamo soprattutto macchinari, mezzi di trasporto, pelletteria… non si può semplificare troppo”.
A metterci ulteriore carico è Giampaolo Galli, direttore scientifico dell’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica, che in un’intervista a Repubblica spiega come i dazi Usa costeranno alle imprese italiane dieci volte il livello di oggi e che per questo non capisce “l’entusiasmo della premier Meloni e dei ministri Giorgetti e ora anche Urso, per l’accordo sui dazi al 10%”.
Galli spiega che con i dazi Usa al 10 per cento ci sarebbe una “penalizzazione pesante, come provano le simulazioni dei think-tank. L’Ispi calcola che con i dazi al 10% l’Italia perderà lo 0,1% di Pil, e parliamo di un Paese che crescerà, dice l’Istat, dello 0,6%. Certo, i dazi al 50% spazzerebbero via l’intera crescita, e di grandezze simili si parla anche per l’Ue”.