La rubrica Sottosopra

Giovani e smartphone

Non dobbiamo mai dimenticare che la conoscenza autentica si realizza nelle relazioni concrete, vive, fra le persone in carne e ossa: non deriva dagli algoritmi controllati da altri. Bisogna riflettere sul grande scenario dell’ “uomo mediato” contemporaneo.

Editoriali - di Mario Capanna

20 Luglio 2025 alle 22:00

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Photo credits: Clemente Marmorino/Imagoeconomica
Photo credits: Clemente Marmorino/Imagoeconomica

La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere.
(Plutarco)

Dall’alto della sua esperienza internazionale l’Ocse ha condotto un’ampia indagine sui giovani delle scuole superiori, riferita ai 37 Paesi membri. Emerge che il 65 per cento di loro è distratto dall’uso del cellulare in classe e il 59 per cento lo è dai compagni che utilizzano il telefonino. La conseguenza è un forte decadimento dell’apprendimento, che comporta il calo delle prestazioni e dei risultati scolastici. Per questa ragione le scuole olandesi, per esempio, hanno deciso di recente di invitare gli studenti a lasciare a casa lo Smartphone o a riporlo in appositi armadietti fino alla fine delle lezioni. Il risultato non è di poco conto: il 75 per cento dei giovani ha dichiarato che così si concentra molto meglio su quanto viene insegnato dai docenti, e si accorge che migliorano le interazioni con i coetanei, mentre l’ambiente scolastico diviene nell’insieme più interessante e invitante.

Senza cellulare fra le dita (e… in testa), gli alunni tornano a guardarsi negli occhi, si parlano, discutono, leggono con maggiore attenzione e, tornati a casa, il beneficio prosegue: interagiscono meglio con le altre persone, e il tutto porta a diminuire gli atti di bullismo. Un altro rapporto, dell’Unesco, mette in rilievo che anche una piccola distrazione, provocata dal telefonino, richiede allo studente circa 20 minuti per recuperare la concentrazione. È la fatica che il cervello fa per lasciare il mondo virtuale e tornare a quello reale. L’Italia si sta adeguando. Il ministro dell’Istruzione ha stabilito che, a partire dal prossimo anno scolastico, il cellulare non potrà più essere usato nelle classi. La questione non è per nulla di secondaria importanza. Pensiamo al fatto che in Italia circa il 28 per cento della popolazione fra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale (dati Ocse). Il che significa che le persone, quasi una su tre, pur sapendo leggere e scrivere, provano difficoltà a comprendere le informazioni di uso corrente, specialmente se derivano da testi misti, pur se brevi. Non c’è da stare allegri: siamo al terzo posto, dopo Cile e Turchia. Ovviamente non tutta la colpa è dei cellulari. Ma non si può eludere il problema generato dalla loro diffusione e dal loro uso.

È ormai risaputo che il sovraccarico di “notizie” e di “informazioni”, che riceviamo dai telefonini, crea, se non stiamo attenti, un surplus di confusione. Tramite Internet i dati si susseguono a ritmo incessante, con la tecnica del chiodo che scaccia chiodo, per cui è facilissimo perdere la connessione tra i “fatti” e il loro contesto, tra gli avvenimenti e le loro conseguenze. Personalmente mi sono cautelato, rifiutando, per principio, di avere il cellulare: mi limito all’uso dell’iPad e all’umana gioia del telefono fisso. Per quanto riguarda i giovani, e in particolare gli studenti, più che il proibizionismo di solito inefficace, è decisiva la spiegazione in merito ai vantaggi e ai rischi del cellulare (ma chi lo fa? La famiglia, la scuola?). Si tratta di usarlo con intelligenza, senza… esserne usati, mantenendo pienamente la padronanza di sé. Non dobbiamo mai dimenticare che la conoscenza autentica si realizza nelle relazioni concrete, vive, fra le persone in carne e ossa: non deriva dagli algoritmi controllati da altri. Bisogna riflettere sul grande scenario dell’ “uomo mediato” contemporaneo.

Certo, la conoscenza è sempre frutto di mediazione, a partire dai nostri sensi. Ma – ecco il dato centrale – la mediazione, attraverso lo sviluppo accelerato delle tecnologie, è cresciuta a dismisura rispetto alla realtà. Al punto che, oggi, l’uomo mediato è “dimidiato”, sostanzialmente “dimezzato”: dalle macchine e dai circuiti telematici che lo allontanano (lo separano) dalla vita reale. In proposito Hans Georg Gadamer, considerato il padre dell’ermeneutica moderna, ha dichiarato: “La tecnica è una nuova forma di schiavitù. Tutta l’informatica è una catena intelligente di schiavi. Siamo tutti schiavi, dei media e dei nuovi media. Schiavi, però, non come nell’antichità, ma in modo ben più raffinato: siamo schiavi pensando di essere padroni. Tante informazioni, troppe informazioni non danno il tempo di pensare” (corsivo mio). Semplice e difficile al tempo stesso: per autodeterminarci, liberandoci dalla schiavitù, c’è una sola possibilità: dobbiamo tornare a pensare. Sapendo che, al di là della tecnica, questa è la nostra facoltà più elevata.

20 Luglio 2025

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