La rubrica Sottosopra
Come l’iperconnessione causa ansia e depressione: addio homo sapiens, ecco l’homo digitans
Abbiamo dimenticato in questo modo che ciò che può “salvare” contiene anche la possibilità di distruggere. Sicché dico: digitare meno e pensare di più. Per essere padroni di se stessi
Editoriali - di Mario Capanna
Questo è il bello dell’anarchia di Internet. Chiunque ha il diritto di manifestare la propria irrilevanza.
(U. Eco)
Sembra quasi che l’homo sapiens venga (sia stato?) ormai sostituito dall’homo digitans. Ci riflettiamo poco, ma il fatto è che, per gran parte del giorno, molti – moltissimi – passano il tempo a digitare: premono compulsivamente tasti, le dita ballano e rimbalzano su specie di bottoni, la mani danzano su tastiere. Ma: chi digita di continuo pensa? O il pensare diviene una variabile dipendente dal lavorio frenetico delle dita? Sì che il pensare non è il riflettere autentico sulla realtà delle cose, ma il vagheggiare sui loro rimandi telematici?
Il digitare, ovviamente, non è intrinsecamente malvagio, ma non è per niente immune da effetti negativi e persino assai dannosi. Le cronache sono ricche di conferme. Dagli spioni che per via telematica si sono impadroniti, a scopo di condizionamento e ricatto, di dati sensibili relativi a centinaia di figure pubbliche, incluso il capo dello Stato, alla struggente storia, raccontata nel film Il ragazzo dai pantaloni rosa, del quindicenne bullizzato e, per questo, suicidatosi. Il digitare su Internet, se non consapevole e avveduto, può determinare guai consistenti. Esso, di solito, si accompagna alla fretta. Un’insidia aggiuntiva. Esempio minimale: arriva una mail e la tentazione è di rispondere immediatamente, per poi magari pentirsi di quanto scritto senza un minimo di ponderazione. Personalmente mi cautelo evitando di interagire a caldo: prima di rispondere lascio passare 12-24 ore.
Studi recenti, e ormai ritenuti generalmente affidabili, mostrano i danni gravi che possono derivare da un certo uso degli smartphone e da una frequentazione eccessiva dei social – con digitazione frenetica – soprattutto da parte di ragazzi e giovani. Il dibattito, iniziato negli Usa, è ora vivo anche in Europa. In Italia è stato appena tradotto il libro dello statunitense Jonathan Haidt La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli. Lo studioso, docente di psicologia sociale alla New York University, ha rilevato che negli Usa fra il 2010 e il 2020 – il periodo della diffusione massiccia degli smartphone – i tassi di ansia e depressione sono aumentati del 50%, i casi di suicidi sono cresciuti del 48 % fra i maschi dai 10 ai 19 anni, mentre per le ragazze, fra i 10 e 14 anni, l’aumento è stato del 131%. “L’iperconnessione”, sostiene Haidt, “produce livelli molto alti di stimolazione, per cui il mondo appare noioso”, e perciò da rifuggire. Ed è appunto questa fuga dalla realtà che sta alla base delle forme più gravi del disadattamento giovanile (che non lascia del tutto indenni anche molti adulti). La sua conclusione è drastica. Raccomanda di “vietare i cellulari a scuola e vietare i social prima dei 16 anni”.
Nutro dubbi che il proibizionismo possa essere efficace. Non solo può essere aggirato, ma rende più desiderabile ciò che viene negato e bandito. Meglio evitare scorciatoie. Il rimedio più utile è quello di responsabilizzare le persone, soprattutto gli adolescenti e i giovani, tramite il ragionamento e la spiegazione circa le potenzialità positive e, insieme, le insidie di Internet. Compito ineludibile, questo, di genitori, scuola e media. E compito fondamentale pure in relazione a quella che, impropriamente, viene chiamata IA (Intelligenza artificiale). L’occasione, oltretutto, sarebbe propizia anche per approfondire la riflessione sulla visione unilaterale con cui la modernità ha finito con il rivestire la tecnica. Nella cultura contemporanea prevalente tutto ciò che afferisce la tecnica viene considerato in modo per lo più positivo. La tecnica, con i suoi avanzamenti e le sue varie applicazioni, è – diviene – sinonimo comunque di possibile accrescimento delle nostre facoltà, appare in ogni caso come un vantaggio destinato a migliorare la vita, rendendo più “produttive” le nostre performance, alleviando le fatiche, facendo risparmiare tempo ecc.
Abbiamo smarrito il senso profondo dell’intima e originaria ambivalenza (positive e negativa) della stessa parola “tecnica”. Nella visione del mondo degli antichi greci – visione che sta alla base della cultura occidentale – téchne (da cui la parola “tecnica”) indicava sì l’arte di costruire, assemblare, congegnare e allestire, ma, insieme, significava pure “inganno”, “raggiro”, “artificio”, “tranello”, “espediente”. Agli albori della letteratura greca, già Esiodo parlava di dòlia téchne (“tecnica ingannevole”). Rapidamente noi abbiamo finito con l’assumere e mettere in rilievo solo il primo aspetto, perdendo di vista del tutto, fino a occultarlo, il secondo. Si è diffusa così, ed è prevalsa, quella che potremmo chiamare la “visione salvifica” della tecnica. Abbiamo dimenticato in questo modo che ciò che può “salvare” contiene anche la possibilità di distruggere. Il “paradiso della tecnica”, come argomentava con rigore Emanuele Severino, può convertirsi nel suo contrario, determinando “l’inferno”… (si pensi, ad esempio, all’olocausto nucleare possibile). Sicché dico: digitare meno e pensare di più. Per essere padroni di se stessi.