Il caso del boss

Giovanni Brusca è libero, le polemiche sul macellaio di Capaci

Dopo la notizia della revoca della libertà vigilata concessa al boss, c’è ancora confusione sull’origine normativa di una decisione per molti inaccettabile

Giustizia - di Stefano Giordano

18 Giugno 2025 alle 15:00

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© Archivio LaPresse
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Giovanni Brusca, il “macellaio di Cosa Nostra”, è ufficialmente un uomo libero. Colui che il 23 maggio 1992 premette il telecomando della strage di Capaci, causando la morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e della loro scorta, ha visto concludersi il periodo di libertà vigilata cominciato nel 2021. Non più controlli, non più obblighi: Brusca è ora libero, senza alcun vincolo legale che lo sottoponga alla sorveglianza dello Stato. Questa notizia, che ha fatto rabbrividire l’opinione pubblica, riecheggia come un doloroso paradosso, in cui il sistema giudiziario italiano si ritrova ad applicare norme ispirate a principi giusti – come il reintegro sociale – a un caso che molti cittadini, comprensibilmente, trovano inaccettabile.

Ma come siamo arrivati a questo punto? La revoca della libertà vigilata, misura prevista dal Codice Penale, non avviene automaticamente: è il giudice con un provvedimento a stabilire se la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura possa ritenersi cessata. Non conosciamo i dettagli del provvedimento con cui il giudice ha disposto la cessazione della libertà vigilata di Brusca. Tuttavia, ci permettiamo di non condividerne gli effetti per due ragioni fondamentali: il concetto di difesa sociale e il rispetto per il dolore dei parenti delle vittime. Il concetto di difesa sociale si basa sulla necessità di garantire che un soggetto non rappresenti più un pericolo per la collettività. E qui la domanda è inevitabile: possiamo realmente considerare Giovanni Brusca – un pluriomicida, mandante di centinaia di crimini e responsabile, tra gli altri, del rapimento e dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo – come un individuo non pericoloso dopo il suo percorso di collaborazione giudiziaria?

Per rispondere, bastano le sentenze definitive emesse dalla magistratura. Sia nel procedimento Capaci bis che in quello sull’omicidio Di Matteo, Brusca è stato giudicato “contraddittorio, calunnioso e spesso manipolatorio”. Tuttavia, non sono solo queste due sentenze a sollevare dubbi. Anche altri procedimenti giunti a sentenza definitiva certificano, almeno sotto determinati aspetti, l’inattendibilità di Brusca come collaboratore di giustizia: a volte ha taciuto informazioni che erano nella sua conoscenza, altre ha fornito versioni dei fatti incomplete o non completamente veritiere. Garantire alti principi di giustizia è fondamentale in uno Stato di diritto, ma premi e benefici vanno concessi solo dove ci siano basi di merito e piena sicurezza. Come sottolineava Norberto Bobbio,lo Stato di diritto si fonda sull’equilibrio tra libertà e sicurezza”. La libertà individuale non è assoluta: si ferma laddove inizia il diritto alla sicurezza della collettività. Nel caso di Giovanni Brusca, quella sicurezza collettiva sembra essere stata sacrificata, forse a causa di una interpretazione della legge che rischia di essere letta come eccessivamente burocratica e automatizzata, senza la necessaria attenzione al caso concreto e al passato del soggetto.

Infine, non si può ignorare il dolore dei parenti delle vittime. Ogni decisione giudiziaria deve tenere conto delle ricadute emotive e morali sulle persone che hanno perso i loro cari. Concedere la revoca della libertà vigilata potrebbe rappresentare un ulteriore schiaffo alla memoria delle vittime e rischia di minare la fiducia della società nella giustizia. Occorre evidenziare anche la sequenza di errori che coinvolge la gestione dell’eredità falconiana. Gli errori tecnico-giuridici delle dichiarazioni di Maria Falcone sulla liberazione di Brusca si inseriscono infatti in un quadro più ampio di difficoltà comunicative che ha già mostrato le sue criticità durante le commemorazioni del 23 maggio 2025, quando la Fondazione Falcone da lei diretta commise l’errore di anticipare il minuto di silenzio, suscitando polemiche per le quali non è mai stata formulata una scusa formale.

Il primo errore riguarda l’attribuzione normativa della liberazione di Brusca. Maria Falcone ha dichiarato che si tratta della “legge sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni”, come se la revoca della libertà vigilata fosse una diretta conseguenza della normativa sui pentiti. In realtà, la cessazione della libertà vigilata è disciplinata dagli articoli 207 e 228 del Codice Penale del 1930 — ben sessantadue anni prima della legge sui collaboratori — che prevedono la revoca delle misure di sicurezza quando il giudice accerti la cessazione della pericolosità sociale, indipendentemente dal fatto che il soggetto sia o meno un collaboratore di giustizia. La legge sui collaboratori di giustizia ha consentito a Brusca di ottenere benefici durante l’esecuzione della pena, ma la revoca della libertà vigilata segue regole autonome e preesistenti, fondate sull’attuale pericolosità sociale del soggetto. Questa imprecisione rischia di far apparire come automatico ciò che invece è frutto di una valutazione giudiziale. Il pericolo è che tali inesattezze possano dare argomenti a chi vorrebbe mettere in discussione uno strumento che, pur perfettibile, rimane fondamentale per il contrasto alla criminalità organizzata.

Il secondo errore è ancora più significativo. Maria Falcone ha sostenuto che Brusca “ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia che ha avuto un impatto significativo sulla lotta contro Cosa Nostra”, aggiungendo che “le confessioni di Brusca hanno contribuito all’arresto di numerosi mafiosi e alla confisca di beni illeciti”. Tuttavia, nella stessa dichiarazione, ha dovuto ammettere che “la sua collaborazione non è stata, su ogni fronte, pienamente esaustiva”. Un eufemismo, questo, che mal cela la realtà processuale. Brusca è stato più volte definito contraddittorio, inattendibile e manipolatorio dalle sentenze definitive. Non si tratta di lacune marginali, ma di valutazioni giudiziali che hanno messo in discussione la genuinità del suo contributo. Come osservato dalla Gip Marina Petruzzella, le interpretazioni di Brusca erano state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni ricevute nel corso di interrogatori”, mentre altri magistrati hanno evidenziato “una possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie, determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza”.

Definire “significativo” il contributo di un collaboratore giudicato inattendibile distorce la realtà giudiziaria. E se si ha un ruolo pubblico nella custodia della memoria antimafia, la precisione nelle affermazioni diventa un dovere morale. Questi errori contribuiscono a indebolire la credibilità delle istituzioni e alimentano il cinismo dei cittadini. In simili circostanze, forse il silenzio sarebbe stata la scelta più saggia. Il caso di Giovanni Brusca libero e le imprecisioni comunicative ci portano alla stessa conclusione: la verità autentica, quella che i Greci chiamavano aletheia – il disvelamento – sta diventando sempre più fragile nella nostra società. Come scriveva Hannah Arendt: “Il potere corrisponde all’abilità umana non solo di agire, ma di agire in concerto”.

La memoria collettiva richiede proprio questo: agire insieme, con la stessa dedizione alla verità e lo stesso rispetto per chi ha sacrificato la propria vita. Non possiamo permettere che la giustizia diventi mera applicazione burocratica di norme, né che la memoria si trasformi in una rappresentazione svuotata del suo significato più profondo. Ai giovani dobbiamo lasciare in eredità la consapevolezza che la verità non è negoziabile, che la giustizia autentica non può prescindere dalla sicurezza collettiva e che la memoria delle vittime merita rispetto assoluto, non compromessi organizzativi. Giovanni Brusca è libero. Forse era evitabile, forse no. Ma senza memoria autentica, senza onestà intellettuale e senza il giusto rispetto per la complessità della giustizia, quante altre volte continueremo a tradire il senso profondo di ciò che chiamiamo verità? È questo il nostro dovere morale verso chi non c’è più e verso chi verrà dopo di noi: custodire l’aletheia, la verità disvelata, come l’unico antidoto possibile all’oblio e all’indifferenza.

18 Giugno 2025

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