La strage di via D'Amelio
Il mistero dei delitti di Falcone e Borsellino sono nella Procura di Palermo, il “nido di vipere”
Serve una commissione d’inchiesta parlamentare. Bisogna capire cosa intendesse il giudice ucciso quando parlava di un amico traditore e della Procura come di un nido di vipere. E il dossier mafia-appalti?
Editoriali - di Piero Sansonetti
Andrebbero studiati bene quei 57 giorni nei quali Paolo Borsellino lavorò alacremente, consapevole di essere stato condannato a morte e di non poter sfuggire alla sentenza, cioè il tempo che passò dall’uccisione di Giovanni Falcone – e della sua scorta e di sua moglie – fino alla strage di via D’Amelio (della quale oggi corre il trentunesimo anniversario). Nessuno mai li ha voluti studiare.
Noi sappiamo poche cose di quei giorni. Le principali le ha scritte su questo giornale qualche giorno fa Fabio Trizzino, che è l’avvocato della famiglia Borsellino. Sono tre. Borsellino disse a diverse persone (tra le quali due magistrati che hanno riferito con precisione la frase) che aveva scoperto «che un amico lo aveva tradito». Poi Borsellino parlò della Procura di Palermo, testualmente, come di «un nido di vipere». Infine confessò a Fernanda Contri (ex giudice costituzionale ed ex ministra del governo Ciampi) di sentirsi paurosamente solo. Cioè di non avere l’appoggio dei colleghi.
Mi pare che questi tre elementi, da soli, definiscano bene qual è il primo punto oscuro da affrontare, se si vuole capire le condizioni nelle quali fu ucciso Borsellino, i motivi per i quali fu ucciso, e probabilmente anche i motivi e le condizioni nelle quali fu ucciso Giovanni Falcone. «Nido di vipere»,«amico traditore», «solitudine». Queste poche parole descrivono l’opinione che Paolo Borsellino aveva della Procura di Palermo nel 1992.
Ora io mi chiedo quale è lo scopo di una commissione parlamentare di inchiesta. Ogni tanto se ne istituisce una che ripete, male, il lavoro già compiuto dalla magistratura. Per esempio ora si vuol fare una commissione sul Covid. Tempo perso. Qui invece la questione è diversa: l’oggetto di tutti i dubbi è la magistratura stessa. E le possibilità che la magistratura indaghi su se stessa sono molto modeste. Possiamo anche dire che sono nulle, visto che in questi 31 anni la magistratura non si è occupata di questo. Eppure da molti anni è evidente a chiunque conosca appena un poco poco le cose, che il vero mistero irrisolto è quello: a che gioco giocò la Procura di Palermo nel 1992?
Solo una vera commissione di inchiesta parlamentare, con tutti i poteri che le spettano, può svolgere questa indagine. Può rileggere tutti i documenti dei quali si dispone, compresi gli interrogatori realizzati dal Csm, le dichiarazioni dei magistrati dell’epoca, quel che emerge da spezzoni di varie inchieste, e può interrogare in modo stringente tutti i protagonisti che vivevano nel nido di vipere, che non sono pochi e alcuni ancora mantengono posizioni rilevanti della vita pubblica. Certamente hanno molte cose da dire. Di fronte alla certezza che Paolo Borsellino – uno dei pochi che di mafia se ne intendeva davvero – definì la Procura di Palermo «nido di vipere» e definì un suo amico, probabilmente collega, un traditore, e che da queste considerazioni faceva derivare la certezza che sarebbe stato ucciso, mi pare strano che nessuno abbia pensato di indagare per capire se in procura ci furono complicità, o connivenze o omissioni.
È impossibile spiegare l’assenza di un’inchiesta e di una spiegazione alle denunce del giudice che ieri tutti hanno voluto commemorare ma solo a suon di parole vuote e retorica. Ho visto che ci sono state però molte dichiarazioni assai combattive. Per esempio quelle dell’ex pm Scarpinato, il quale tra l’altro ha sostenuto la tesi un po’ temeraria che Berlusconi è l’uomo che ha portato la mafia nelle istituzioni. Scarpinato ha compiuto i settant’anni e quindi non può non ricordare che il rapporto tra mafia e politica fu molto intenso quando Berlusconi non era neppure all’orizzonte. Negli anni cinquanta, negli anni sessanta, negli anni settanta. Furono istituite dal Parlamento le commissioni antimafia, che lavorarono in un clima difficilissimo, con tutti i giornali contro, con la politica cieca o complice, con una gran parte della magistratura quieta e miope.
La mafia in quegli anni diede l’assalto allo stato. E poi ricevette dei colpi micidiali da magistrati come Terranova, Chinnici, Falcone e Borsellino ( e altri magistrati valorosi). Reagì uccidendoli. Parlo soprattutto di Cosa Nostra. Negli anni novanta Cosa Nostra pagò un prezzo alto: finì fuori del potere e vide azzerata la sua forza politica. I governi Berlusconi fecero delle leggi molto dure contro la mafia, forse anche incostituzionali, e ottennero discreti risultati, dovuti essenzialmente al lavoro precedentemente svolto da Falcone e Borsellino e poi anche da Giancarlo Caselli. Non credo che sia stato Berlusconi a sconfiggere la mafia, certo però è una cosa un po’ ridicola pensare che fu lui a portare la mafia nelle istituzioni. Fa quasi tenerezza sentire un magistrato, che pure ha sempre vissuto su quel fronte tanti anni, sostenere candidamente una cosa così insensata.
Allora, tornando alla denuncia di Scarpinato sulla mancata scoperta di forze oscure che in quegli anni aiutarono la mafia, non credo che – per dargli soddisfazione – si debba andare molto lontano. Basta restare lì, a Palermo, e cercare in Procura nel periodo del Procuratore Giammanco e nei periodi precedenti (fino all’arrivo di Caselli). Cosa successe? Chi lasciò solo Borsellino? E perché, ad esempio – è una domanda che ho proposto tante volte in passato – fu archiviato il dossier mafia-appalti, che era stato preparato dall’allora colonnello Mario Mori, e che scopriva il velo sui rapporti di Cosa Nostra, e in particolare dei corleonesi, con diversi settori dell’impresa del nord e del centro Italia? In quel dossier non c’era il nome di Berlusconi, e questo forse diede fastidio. mentre c’erano tanti altri nomi molto grossi.
Quel dossier era quello sul quale voleva lavorare Borsellino, ma a sua insaputa ne fu chiesta – e poi ottenuta – la archiviazione proprio nei giorni nei quali Cosa Nostra uccideva il giudice. È una circostanza inquietante. Tra l’altro di recente si è scoperto – ne ha scritto il mio amico Damiano Aliprandi sul “Dubbio” – che in quel dossier si parlava di un appartamento proprio vicino al luogo dove fu poi ucciso Borsellino, che apparteneva a un mafioso importante. Forse fu azionato da lì il telecomando.
La vicenda di quel dossier è nota. Archiviato il dossier, sviate con un depistaggio le indagini sull’attentato a Borsellino (e in questo modo fu evitato che si indagasse sulla possibilità che l’omicidio fosse legato al dossier) e infine messo sotto accusa con vari processi l’autore del dossier, e cioè il colonnello Mori, che le frattempo aveva catturato Riina, cioè l’oggetto principale del dossier. Mori poi fu assolto da tutto, ovviamente, ma tenuto fuori combattimento per due decenni. Non sono certo io che posso trarre conclusione da questa semplice esposizione dei fatti. Una commissione parlamentare potrebbe. C’è il rischio che tocchi troppi nervi scoperti, che dia fastidio a troppe persone? Penso di sì.