Il saggio dedicato al pacifista
Sabotare la guerra è sabotare il potere: la lezione di Langer
“Continuate in ciò che è giusto”, non è solo il titolo di una biografia appassionante, ma anche l’ultima frase che l’attivista lasciò scritta in un bigliettino prima di togliersi la vita. Una vita intensa, fatta di disobbedienza e di concretezza
Cultura - di Filippo La Porta

Alex Langer, apostolo e combattente della nonviolenza, suicidatosi a cinquant’anni anni nel 1995, è una figura luminosa che si accampa al centro del nostro immaginario, “mito e revenant, fin dagli anni Novanta, dalla politica parlamentare e extraparlamentare ed europea di area verde, si sinistra cattolica e di radicalità varie”, come leggiamo in Continuate in ciò che è giusto. Storia di Alex Langer, di Alessandro Raveggi, Bompiani (il titolo è il biglietto lasciato da Langer).
Il merito di Raveggi, che è nato nel 1980 e che ha elaborato il lutto del Movimento al G8 di Genova (“bastò una manciata di mesi, di botte, di sangue per cancellare il sogno dei meravigliosi anni duemila”), è di aver scritto una biografia di Langer, anche rapsodica e incompleta, ma che somiglia a un dialogo stringente e a un esame di coscienza: in ogni pagina si fa interrogare dall’esistenza di Langer, dal suo impegno civile e dalla sua altissima testimonianza, si fa accompagnare idealmente per mano nei luoghi fisici e spirituali che aveva frequentato: “Quell’uomo mi parla”.. Si comincia proprio dall’albicocco, albero biblico e induista simbolo di rinascita, cui Langer volle appendersi con una corda nel Pian de’ Giullari, vicino Firenze. Le riflessioni su di lui si mescolano ai pensieri dell’autore sulla propria vita quotidiana, sulla relazione con la moglie messicana, sui due figli.
Langer è stato un convinto europeista: “l’Europa è un diario, un treno-notte: dove l’intimità spesso rompe la burocrazia. Prendete adesso in mano il corposo Diario europeo di un appassionato costruttore di Europe come lo fu Altiero Spinelli. Apritelo agli anni 1970-1976, leggetene le prime pagine, che raccontano di quando finalmente diviene membro della Commissione europea. Vi troverete un uomo fin dai primi giorni perso nella burocrazia, nella politica sporca e brutta di ogni giorno, come lo fu Alexander Langer a Bruxelles e Strasburgo nel 1989….”. E ancora: “Dovrebbe essere così, ‘diaristica’, la nostra idea d’Europa da sostenere e difendere, anche impegnata e innamorata, dura da portare avanti nel quotidiano, a tratti grigia ma anche la migliore e la più ottimistica possibile. Un sentimento, più che un profitto, avrebbe detto ancora una volta Alex”. Dunque un’idea diaristica, cioè antiretorica, frammentaria ma ostinata, dell’Europa, fatta di doveri pubblici e vita quotidiana, di politica e affetti privati, di briefing interminabili e dimensione irriducibile del proprio corpo (che è sempre fragile, precario). Potremmo aggiungere: dovrebbe essere “diaristica” perfino la nostra idea di impegno, di cultura, etc., nel senso di non perdere mai di vista la motivazione profonda e personale dell’agire civile.
Il suo pacifismo “interventista”, ricco di vitalissime contraddizioni (come il suo ecologismo e femminismo: nel 1987 aderì a un manifesto del cardinale Ratzinger sulla procreazione artificiale), dovrebbe oggi rientrare nella discussione pubblica. Nel maggio del 1995 su L’Alto Adige, proprio da pacifista e nonviolento, “invoca (non era la prima volta) l’intervento di una forza internazionale – quella cioè che si trovava già sul campo, i caschi blu dell’Onu – per garantire anche con le armi il diritto internazionale” contro i serbi aggressori. In quel caso l’intervento militare, affidato a una forza neutra, poteva fermare un genocidio (ricordiamo che dopo la guerra gli fu data la cittadinanza onoraria di Sarajevo) e ridurre il danno. Certo, il pacifismo concreto di Alex si voleva mettere anzitutto alla prova con l’aiuto agli sfollati, l’organizzazione di campi profughi, l’invio di aiuti, la promozione degli incontri tra oppositori alla guerra delle diverse nazionalità (dunque “disintossicando” le menti e i cuori). La Carovana europea della pace nel 1991, lo vide passare dalle città (già jugoslave) di Opicina, Rijeka, Lubiana, Zagabria, Subotica, Novi Sad, Belgrado, Skopje fino a Sarajevo, in bus con quattrocento esponenti dei paesi europei aderenti agli Accordi di Helsinki, una carovana accolta da gruppi di donne (anche madri di soldati) di intellettuali o artisti, di esponenti religiosi e sindacali. Dove, tra l’altro, apprendiamo che l’azione nonviolenta non comporta meno rischi personali di quella violenta: il suo pacifismo non è mai la scelta egoista di vivere e consumare in pace!
Tuttavia in questo mondo sublunare, l’unico che conosciamo, probabilmente la rinuncia totale alla forza non è realistica: ci sarà sempre qualche prepotente che bisogna frenare, anche con la forza. Però l’uso della violenza – sempre contenuto, responsabile, rigorosamente proporzionato (anche l’antico codice di Hammurabi, XVIII secolo a.C., si proponeva di contenere la violenza umana, che non si può espungere del tutto dalla Storia) – va demandato a organismi internazionali. In ogni caso la nonviolenza per Alex era uno stile di vita, un modo di relazionarsi al prossimo, prima ancora dell’impegno politico, lo sforzo quotidiano di “sabotare” ogni logica di potere in cui noi stessi ci troviamo. Qui si dischiude l’utopia più alta, quella del gratuito e del disinteressato: rifuggiva drasticamente “dalle persone che mi cercano in funzione di qualche mio ruolo… una delle mie maggiori ricchezze sono gli incontri, già familiari o nuovi che siano, che la vita mi dona. E quindi: vorrei continuare ad apprezzare gli altri ed esserne apprezzato senza secondi fini. Forse anche per questo converrà tenersi lontani da ogni esercizio di potere”. Il bene più prezioso della vita è ciò che non pianifichiamo e che ci viene dato, che non rinvia ad alcun progetto e che ha significato in sé. Né Langer coltivava visioni lamentosamente catastrofiste: ogni giorno poteva accadergli – può accaderci – di incontrare qualcuno che ci cerca senza secondi fini. Ecco una cellula minuscola, ma preziosa, della società che auspichiamo.
Torniamo sul gesto estremo con cui Langer volle concludere la propria esistenza. Come ha scritto Camus nei suoi Taccuini l’uomo non è interamente sociale: “almeno la sua morte gli appartiene. Noi siamo fatti per vivere verso gli altri. Ma si muore veramente solo per sé”. Langer ha vissuto costantemente verso gli altri – gente comune che incontrava, e poi curdi, zingari, bosniaci… – ma non si esauriva in ciò. Per questa ragione nessuno ha il diritto di entrare nella zona misteriosa, inviolabile, in cui ha maturato la decisione finale. Possiamo solo rispettare quella decisione, o anche trattarla come un koan buddhista, come l’occasione cioè di un esercizio spirituale, di una meditazione su di noi e sul mondo.