Il portavoce di Amnesty Italia

Parla Noury: “Un SI ai referendum sulla cittadinanza per abbattere le discriminazioni”

«Il quesito vuol rendere il sistema più equo e realistico senza stravolgere i criteri già previsti. Non si chiede la luna. L’appello all’astensione di La Russa? Siamo al menefreghismo istituzionale. Amnesty International invita a recarsi ai seggi e ad esprimersi su tutti e cinque i referendum»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

22 Maggio 2025 alle 08:00

Condividi l'articolo

Photo credits: Andrea Panegrossi/Imagoeconomica
Photo credits: Andrea Panegrossi/Imagoeconomica

Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Italia. Amnesty Italia è particolarmente impegnata per il sì al referendum sulla cittadinanza dell’8-9 giugno. Cosa vi ha spinto a questo sostegno attivo?
Nei nostri primi 50 anni di attività in favore dei diritti umani in Italia, che ricorrono proprio nel 2025, abbiamo appreso e praticato una lezione: il progresso nel campo dei diritti passa attraverso forme di partecipazione attiva: mobilitarsi nelle piazze, andare al voto in occasione delle elezioni e, naturalmente, partecipare ai referendum. Quest’ultimo strumento è particolarmente utile quando non c’è altro modo per cambiare una situazione. La normativa sull’acquisizione della cittadinanza italiana, che il referendum intende modificare, risale addirittura al 1992. Da allora si sono succeduti governi di orientamento diverso ma non c’è stato mai modo di intervenire. La proposta referendaria abrogativa intende meramente rendere il sistema più equo e realistico, senza stravolgere i criteri già previsti dalla legge. Non si chiede la luna. Caso mai mezza, dato che il quesito propone la riduzione da dieci a cinque anni del requisito di residenza legale e ininterrotta in Italia per poter presentare domanda di cittadinanza. Peraltro, il percorso è molto più lungo: se si sommano il tempo necessario per soddisfare i requisiti (ad esempio, maturare il reddito richiesto) e i lunghi tempi di attesa per la valutazione della domanda da parte della pubblica amministrazione, si arriva facilmente ad almeno quindici anni prima di ottenere la cittadinanza. Anche se il referendum passasse, il tempo complessivo per ottenere la cittadinanza rimarrebbe comunque molto lungo. Oltre ai cinque anni di residenza legale, bisogna considerare che la pubblica amministrazione ha fino a tre anni per valutare la domanda. Questo significa che in ogni caso, tra il tempo necessario per maturare i requisiti e l’iter burocratico, potrebbero passare comunque otto anni prima di ottenere la cittadinanza. Quindi, alla fine, siamo alla richiesta di un quarto di luna.

Qual è la situazione oggi in questo campo?
L’Italia ha uno degli standard più restrittivi d’Europa. La Germania dal 2024 ha ridotto a cinque anni il requisito di residenza, riconoscendo il contributo dei cittadini stranieri allo sviluppo del paese. La Francia richiede cinque anni di residenza, ridotti a due per chi vi ha studiato, idem la Spagna in caso di forti legami storici e culturali col paese.

Quali sarebbero gli effetti positivi della vittoria del sì?
Ridurre il periodo di attesa della cittadinanza significherebbe riconoscere più rapidamente il ruolo delle persone che già vivono qui e contribuiscono alla nostra società. Produrrebbe anche un miglior accesso ai diritti: con la cittadinanza si acquisiscono pieni diritti civili e politici, tra cui il diritto di voto. In altre parole, si otterrebbe una sostanziale riduzione delle forme di discriminazione per le persone oggi prive di cittadinanza italiana. Soprattutto, ne deriverebbe un profondo cambiamento sotto il profilo identitario: chi ha un background migratorio non verrebbe più percepito come “di passaggio” o semplicemente “soggiornante” in Italia, ma come una persona che progetta di costruire la sua vita qui. Vorrei sottolineare un aspetto che è molto trascurato: le persone senza cittadinanza italiana sono oggi più discriminate nel momento in cui scendono in piazza per far valere i loro diritti. Un tema di grande rilevanza di cui si parla e scrive troppo poco. La tendenza al racial profiling da parte delle forze di polizia è stata rilevata dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza. Il racial profiling può produrre una serie di conseguenze negative: lo sviluppo di un senso di sfiducia o di avversione nei confronti delle istituzioni, l’emarginazione e la stigmatizzazione. Nel caso del diritto di manifestazione pacifica, può condurre invece all’autoesclusione, privando quindi le persone razzializzate e senza cittadinanza di uno dei pochi strumenti per far sentire la propria voce, dato che il diritto di voto è loro negato. Inoltre, la segnalazione da parte delle forze di polizia delle persone manifestanti può portare a un diniego della cittadinanza a fronte della presentazione della richiesta.

Libertà è partecipazione, cantava il grande Giorgio Gaber. Eppure, la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, dichiara, con piccoli aggiustamenti retorici, la sua intenzione a fare campagna per il non voto.
Fa impressione una presa di posizione così netta da parte della seconda carica dello Stato. Naturalmente, la cornice di legittimità invocata è quella dell’esercizio di un diritto, e chi glielo può contestare! Però, c’è un problema di opportunità: invitare a non votare vuol dire disincentivare la partecipazione attiva, che è un ingrediente fondamentale delle società democratiche. Non c’è dubbio che, in contesti nei quali già recarsi alle urne è considerato uno sforzo immane o un atto inutile – tant’è che a livello globale la tendenza a presentarsi in pochi a un seggio fa sì che maggioranze vengano elette da minoranze – dichiarazioni di non voto disincentivino a prendere parte a scelte importanti. Siamo al menefreghismo istituzionale, che è un po’ più grave della disaffezione popolare. Anche perché il primo rafforza la seconda. Da qui l’invito di Amnesty International a recarsi ai seggi e ad esprimersi su tutti e cinque i referendum.

I referendum sono oscurati dalla Tv di Stato che, sulla carta, dovrebbe essere un servizio pubblico…
Dovrebbe essere un servizio pubblico anche per quanto riguarda la completezza delle informazioni su quanto sta accadendo da 19 mesi nella Striscia di Gaza mentre invece, come hanno dimostrato le reazioni alla puntata di Presa diretta a ciò dedicata, molti considerano che l’unica informazione corretta sui palestinesi è quella che non ne debba parlare. Nei giorni scorsi, in una conferenza, ho visto in collegamento un uomo sfinito dalla fame, uno dei pochi giornalisti ancora vivi nella Striscia di Gaza: Hassan Selmi. Le sue parole non hanno neanche più un vocabolario adeguato a commentarle: “Cerchiamo di stare il più lontano possibile dai luoghi cui più dovremmo stare vicini: gli ospedali, perché l’esercito israeliano li bombarda. E potrebbe uccidere me in questo esatto momento, mentre sto parlando a voi o perché sto parlando con voi”. A parte il Tg3, non ne ha parlato nessuno. Quanto alla sua domanda sui referendum, ecco l’alibi perfetto: se sono solo alcuni a dichiarare che voteranno no e se le alte cariche dello stato dicono che non voteranno, come fai a parlarne, a prendere parte a un dibattito, se dalla parte contraria al sì non trovi praticamente nessuno? Cosa dovrebbe fare il comitato per il sì? Creare anche un comitato per il no e uno per l’astensione per poter parlare dei referendum?

Per restare su Gaza, una tragedia senza fine…
In un’escalation terribile di attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza, con centinaia di morti solo tra i civili palestinesi nell’ultima settimana e nuovi ordini di sfollamento, dopo 80 giorni di blocco dell’ingresso degli aiuti umanitari e dunque di fame, lunedì scorso il governo israeliano ha deciso di far entrare un centinaio di camion, la distribuzione del cui contenuto è comunque tutta da vedere. Insomma, un indoramento della pillola genocida. Soprattutto quando ha iniziato a circolare la notizia che in qualche camion, che avrebbe dovuto contenere sacchi di farina, c’erano invece sacchi per cadaveri. Qualche governo occidentale si sta muovendo, minacciando sanzioni nei confronti di Israele. Così abbiamo capito qual è la soglia minima necessaria da raggiungere (19 mesi di bombardamenti, oltre 50.000 morti, due mesi e mezzo di blocco degli aiuti) prima che si faccia qualcosa. Martedì scorso la Commissione europea ha annunciato una revisione dell’Accordo di associazione tra Unione europea e Israele, il cui articolo 2 parla di rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. Hanno votato a favore 17 stati membri dell’Unione europea. L’Italia? Ha votato no.

Intanto Amnesty International è finita nell’elenco delle “organizzazioni indesiderabili” in Russia…
È stato il regalo di compleanno del presidente Putin per i nostri 50 anni di attività in Italia. Da un certo punto di vista, è motivo di orgoglio essere insieme a organizzazioni non governative, mezzi d’informazione indipendente, gruppi per i diritti umani, movimenti Lgbtqia+: il loro numero è superiore a 230 ed è enormemente cresciuto dall’inizio della guerra contro l’Ucraina. La legge, entrata in vigore nel 2015, consente allo stato di vietare le attività di organizzazioni non governative straniere o internazionali considerate una minaccia per “la sicurezza dello stato, la difesa nazionale o l’ordine costituzionale” e stabilisce sanzioni per i cittadini e gli organismi della società civile della Russia in contatto con esse. L’etichetta di “organizzazione indesiderabile” non impedirà minimamente ad Amnesty International di continuare a svolgere ricerche sui crimini di guerra in Ucraina o sulla repressione del dissenso interno. Non ebbe alcuna conseguenza nemmeno il provvedimento con cui, nel marzo 2022, venne chiusa la sede moscovita di Amnesty International. Ma rischia di colpire, anche col carcere, persone realmente o pretestuosamente ritenute associate all’organizzazione per i diritti umani.

Come sono stati questi 50 anni di lavoro in Italia?
Demoralizzanti, perché non abbiamo visto emergere una cultura politica dei diritti umani. Dal “qui da noi certe cose non succedono”, siamo passati al rivendicarle: penso all’uso della forza durante le manifestazioni, alla repressione del dissenso, al bavaglio alla libertà di stampa, al trattamento crudele delle persone migranti.
Ma sono stati anche entusiasmanti, perché quella cultura che nelle istituzioni manca l’abbiamo allevata e allenata nelle piazze e nelle scuole. Sappiamo che nei prossimi 50 anni altre persone prenderanno il testimone di queste lotte.

22 Maggio 2025

Condividi l'articolo