Torna il festival della filosofia
Popsophia 2025, ad Ancona la magia della parola
Dal “Liber Medicinalis” del III secolo d.C. a Harry Potter a Lady Gaga: nel mondo secolarizzato e disincantato c’è ancora spazio per il pensiero magico. E agli schermi dei nostri smartphone chiediamo verità sul presente e profezie sul domani
Cultura - di Lucrezia Ercoli

“Le parole sono capaci di incantare, producono piacere e allontanano il dolore” scriveva Gorgia nel suo Encomio di Elena. Le formule magiche – antiche e contemporanee – ci ricordano che le parole hanno da sempre un enorme potere nella nostra vita: le parole ci convincono, ci dissuadono, ci guariscono, ci ammalano. Le parole aprono porte e alzano steccati, per questo sono tanto potenti quanto pericolose. La magia non è altro che un’arte della parola e, viceversa, nel linguaggio c’è sempre una forma di magia.
Ce lo ricorda un filologo che studiava le lingue estinte come J. R. R. Tolkien che in Lord of the rings costruisce un mondo e una mitologia a partire dal linguaggio e non viceversa. Il potente Gangalf conosce il potere evocativo del linguaggio e ha memoria di tutte le antiche formule magiche. In una scena memorabile del primo libro, la Compagnia dell’Anello si trova davanti alla porta di Durin che dà accesso alle miniere di Moira. Scolpita nella roccia c’è un’iscrizione: “Parla, amico, ed entra”. Gangalf capisce che la porta magica è governata dalle parole e cerca di aprirla pronunciando tutti gli incantesimi che conosce. Ma la frase ha diversi possibili significati. La lettura che si rivela corretta è un’altra: la parola “amico” non è un semplice appellativo rivolto a chi si avvicina al regno dei Nani, ma è la parola che il visitatore deve pronunciare. «In questo caso si cela un doppio senso. Quel che dice veramente è: di’ “amico” ed entra. Questa è la parola d’ordine. Pronuncia la parola “amico” ed entra.» dice Gangalf «Non ho che da dire la parola elfica per “amico” e le porte si apriranno: mellon!» Il linguaggio è sdrucciolevole e duplice, le stesse parole possono avere significati diversi, trarci in inganno o essere nostre “amiche” e salvarci.
L’idea magica che semplicemente dicendo qualcosa si realizzi l’effetto sperato, ci dimostra anche che possiamo “fare cose con le parole”. Come dimostra il filosofo inglese J. L. Austin, gli enunciati performativi non si limitano a dire qualcosa, a descrivere qualcosa che c’è, o a prescrivere qualcosa da fare in futuro. Ma proferire un enunciato performativo costituisce già l’esecuzione di una precisa azione. Nella nostra vita quotidiana usiamo continuamente enunciati magici che fanno quello che dicono come “prometto di aiutarti” o “giuro di dire la verità”. “Abracadabra” – la parola che abbiamo scelto come tema dell’edizione 2025 di Popsophia ad Ancona – è una formula magica con cui abbiamo una certa familiarità. La sua origine rimane misteriosa, ma alcuni studiosi la fanno risalire all’aramaico o all’ebraico, con influssi cabalistici e gnostici, lessicalizzata successivamente in ambiente latino, fino a diffondersi capillarmente nelle lingue europee.
Sembra che la prima ricorrenza letteraria risalga al III secolo d. C., nel Liber Medicinalis di Quinto Sammonico Sereno, tutore dell’imperatore Caracalla. Scrivere la parola “abracadabra”, scrive Sereno nel suo trattato di medicina, è un rimedio infallibile contro la febbre causata dalla malaria. Abracadabra, dunque, è una parola apotropaica (dal verbo greco apotrepo che vuol dire “allontano”) che tiene a distanza le malattie: bisogna scriverla in un triangolo rovesciato, eliminando a ogni riga successiva l’ultima lettera della riga precedente, arrotolare il foglio di pergamena, legarlo con un filo di lino e portarlo legato al collo. Ecco un potentissimo amuleto che fa scomparire i sintomi così come scompaiono, riga dopo riga, le lettere della parola. D’altronde pratiche mediche, divinatorie e religiose sono sovrapposte nel mondo antico; ne è un perfetto esempio l’episodio omerico in cui Odisseo si ferisce dopo aver affrontato la sua iniziazione all’età adulta e gli zii cuciono la ferita sulla sua coscia e per non far più scorrere il sangue pronunciano “una formula di incantamento”.
La potenza dell’Abracadabra è scomparsa con la medicina e la scienza moderne, ma la sua presenza si è moltiplicata nell’immaginario della cultura di massa. La formula è rilanciata dalla maledizione mortale ideata da J.K. Rowling nella saga di Harry Potter: pronunciare un “avada kedabra” significa far sì “che la cosa sia distrutta”, una magia nera usata per far scomparire qualcuno, questa volta per sempre. Fino al recente brano di Lady Gaga, un ipnotico “abracadabra-oh-ga-ga” che diventa un tormentone radiofonico tra amore e morte, una lotta tra luce e tenebra nel cuore della cultura pop internazionale. Nel mondo completamente secolarizzato e disincantato, dove tutto sembra oggettivo, razionale e calcolabile, c’è ancora spazio per il pensiero magico e per la logica superstiziosa.
La tecnologia contemporanea è l’epigono di un adescamento magico che ha origini antiche. Una tecnomagia che ci “affascina”, nel senso letterale del termine dal latino fascinum che significa malìa, ma anche amuleto. I moderni dispositivi tecnologici attuano su di noi una seduzione ambigua, un condizionamento magico come quello di chi ha subito un maleficio, come quello degli sciamani che vanno in stato di trance. Viviamo in paesaggi virtuali e dialoghiamo con intelligenze artificiali: lo schermo dello smartphone è il contemporaneo “specchio magico” a cui chiediamo verità sul presente e profezie sul domani, da cui speriamo di avere avatar digitali per sconfiggere la morte o filtri d’amore per trovare l’anima gemella. Invece di agitare una bacchetta magica usiamo un touchscreen, e ci sentiamo onnipotenti come sciamani che cancellano il tempo di attesa tra il desiderio e la sua realizzazione.