L'anniversario del filosofo
Se il governo Meloni elogia Tolkien e dimentica il ‘Padre’ della politica: San Tommaso d’Aquino
Grazie all’elaborazione del pensiero aristotelico, il Doctor Angelicus svincola il potere da una dimensione teologica assoluta, e le assegna il primato in funzione delle necessità del vivere civile
Editoriali - di Michele Prospero
Su Avvenire si è sviluppata una lunga polemica contro l’ennesima trascuratezza del governo in campo culturale. L’anniversario di Tolkien è stato ricoperto d’oro, mentre quello di Tommaso d’Aquino, che cade il 7 marzo, ha attirato solo pochi spiccioli.
Eppure l’Aquinate, con il suo straordinario tentativo di ricorrere agli strumenti logici del pensiero per dirimere le stesse dispute di fede, è una figura chiave non solo della teologia ma anche del politico occidentale.
Come ha notato A. Passerin d’Entrèves (The medieval contribution to political thought, New York, 1959, p. 20), “il senso proprio e il significato storico della teoria politica di Tommaso d’Aquino appaiono strettamente correlati alla sua grande impresa di conciliare aristotelismo e cristianesimo, e alle premesse filosofiche, o meglio metafisiche, che sembravano rendere possibile questa conciliazione”.
Aperto in Europa grazie al grande lavoro filologico condotto dagli averroisti, il laboratorio aristotelico diventa la fonte logica per la mediazione tra ragione e fede che è alla base della scientia politica coltivata come una disciplina speciale.
Quale commentatore di Aristotele, anche Tommaso riconduce le molteplici attività pratiche del vivere civile entro la cornice della politica (“omnes communicationes sub politica continentur”).
In un quadro teologico, il quale postula l’ordine superiore dell’essere governato dal sacro, affiora il primato della politica, che non è assoluto bensì funzionale alle insurrogabili pratiche materiali della vita civile.
Sulla ipotesi di una origine naturale della comunità politica, cioè di un legame genetico tra poteri e bisogni che nascono qui e ora, ruota il riconoscimento dell’autonomia relativa della scienza politica.
Non a caso, proprio con Tommaso si registra “l’ingresso del termine «politico» nel vocabolario intellettuale dell’epoca” (W. Ullmann, Il pensiero politico del medioevo, Bari-Roma, 1984, p. 198).
Più che dalle lotte ingaggiate tra respublica christiana e impero universale, è dal concetto aristotelico di natura che Tommaso ricava il ruolo chiave della politica come sfera volta ad esaltare la progettualità dell’agire mondano.
La conseguenza della rielaborazione delle categorie aristoteliche del politico è che “la rinascita della concezione classica dello Stato ha contribuito a distruggere l’ideale medievale di una comunità o imperium mundi; e ha preparato la strada all’idea moderna del particolarismo delle singole unità politiche sovrane” (Passerin d’Entrèves, cit., p. 36).
Il silenzio sull’ideale medievale di un principium unitatis che si proietta sull’intero creato sospinge l’indagine verso le variegate trame di azioni che naturalmente ogni società intraprende per dotarsi di un potere efficace.
Questa curvatura naturalistica della vita civile permette a Tommaso di ampliare lo sguardo oltre la struttura armonica e immutabile dell’essere, inteso come ordinatio ad unum o Dio, e di pervenire a una nozione allargata di politica in quanto affrancata dalla necessità di una ratifica ecclesiastica.
La consuetudine di riformulare le istanze classiche della politica come dimensione empirico-contingente sospinge la filosofia tomista a graffiare l’idea teocratica che rivendica “omnis potestas a Deo”.
Il compito del vicario di Cristo quale titolare delle potestà spirituale e terrena vacilla solo se per esigenze naturali, che ovunque si avvertono, anche tra i pagani, vengono costruire le fondamenta del comando politico.
È del tutto evidente che una volta “ricondotta l’origine dello Stato all’impulso naturale o alla volontà umana, svanisce l’idea dell’istituzione divina” (O. von Gierke, Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Torino, 1974, p. 69).
Emerge, oltre al postulato metafisico di un ordine gerarchico necessario, anche un evidente riconoscimento della “moralità naturale” delle istituzioni politiche.
I sistemi politici possono essere giustificati “su un piano puramente umano, indipendentemente dai valori religiosi. Ciò implica che anche uno Stato non cristiano o pagano è dotato di un valore positivo” (Passerin d’Entrèves, cit., p. 24).
Il governo politico, avendo ferrei legami con la naturale necessità, non rientra tra le forme più rigorose dell’etica, che vede il divino quale garante dell’armonia.
La cittadinanza organizzata rinvia infatti all’arte e alle differenti capacità di comando, alla scelta contingente che matura tra alternative possibili.
“Non che San Tommaso avesse l’idea di una politica pura, nel senso che il mestiere della direzione dello Stato potesse essere separato dalla moralità; egli proponeva semplicemente che la prudenza politica o l’abilità dello statista dovessero seguire un lavoro pratico serio. L’oggetto era particolare, non generale. La decisione era contingente agli eventi, non necessaria a partire da date premesse, e perciò non poteva mai essere valutata interamente secondo ragioni teologiche e filosofiche” (T. Gilby, The Political Thought of Thomas Aquinas, Chicago, 1963, p. XV).
Così saldamente orientato alle dinamiche biologiche concrete del vivere, il naturalismo tomista non perviene ad una giustificazione del potere, che per scopi del tutto umani viene ovunque edificato.
A proposito della funzione rappresentativa, esercitata dal legislatore entro la cangiante realtà empirica, “Tommaso dimentica di spiegarci come ha fatto la persona investita di pubblici poteri ad entrarne in possesso” (R. W. e A. J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, Bari, 1967, p. 74).
L’enigma della legittimazione dell’autorità non viene sciolto, e in definitiva non giustificato appare anche il dovere di obbedienza dei singoli all’obbligo autoritativo.
Ciò spinge Ernst Troeltsch a ridimensionare il contributo “laico” di Tommaso, il quale viene accusato di muoversi entro una costruzione che “implica anch’essa la teocrazia, solo un po’ più moderatamente”.
Abbandonata la vecchia dottrina dell’obbedienza passiva, Tommaso non raccoglie i frutti della dottrina di ascendenza romanistica, e rilanciata dai glossatori, secondo la quale il principe deriva la sua potestà dal popolo.
Per via di questa carenza rimane indeterminata la questione della giusta resistenza al potere arbitrario (“regimen tyrannicum non est iustum”).
L’opposizione a un’autorità malvagia, che abbandona i requisiti del regimen rectum, oscilla tra misure di ribellione (dinanzi a un tiranno, “videtur quod seditio non semper sit peccatum mortale”) e soluzioni sicuramente più moderate, per cui egli “propone come rimedio la preghiera a Dio e la rettitudine dei cittadini” (S. Vanni Rovighi, S. Tommaso d’Aquino, in L. Firpo, a cura di, Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Torino, 1983, 2, II, p. 483).
La questione dei modi leciti per il rifiuto della tirannide, che perverte il regime politico in vista del bonum privatum, è stata affrontata in maniera persuasiva da Passerin d’Entrèves: “A mio parere, anche se in San Tommaso l’apparente giustificazione del tirannicidio è accompagnata da alcune importanti qualificazioni che in pratica equivalgono a un rifiuto categorico di esso, non ci può essere dubbio alcuno circa il riconoscimento non solo del diritto ma anche del dovere di resistere a un potere ingiusto”.
Al di là dell’efficacia della teoria dei limiti del potere, che non derivano dalla legge bensì dal temperamento, dal contenimento esercitato da organi legali, dalla deposizione, dalla scomunica, “il punto fondamentale è che il tomismo riconobbe la legittimità di un’organizzazione politica puramente umana, un concetto e un’idea che prima era stata assente” (Ullmann, cit., p. 207). Anche per questo motivo è inaccettabile che per il ministero il Signore degli Anelli conti più del “Doctor Angelicus”.