Resistenze ai confini
Black Medical Team, lotta per la sopravvivenza di migranti tra milizie e gli oliveti di Sfax: “Noi curiamo”
Il dottor Ibrahim, migrante rifugiato: “Non potete immaginare quale situazione ci sia tra chi dorme nella sabbia, io sono un medico non potevo abbandonarli, non potevo andarmene”
Cronaca - di Angela Nocioni

Joy è una dei trentamila rifugiati negli oliveti di Sfax. Dice: “Viviamo esposti alla violenza, che si tratti di città o di uliveti: a El Amra al chilometro 30, al 21, ovunque. Tutti i migranti di Sfax soffrono. Donne incinte che muoiono, malattie che sarebbero curabili, ma senza accesso agli ospedali ti fanno morire. Le farmacie riducono la quantità di medicine che ci vendono, perché il governo sta monitorando. Quando scoprono che riceviamo aiuti, il governo cerca di bloccarli. Gli ospedali nelle zone limitrofe non rispondo alle chiamate di emergenza, e molto spesso quando i pazienti vengono ricevuti, enormi somme di denaro sono richieste per l’accesso alle cure, rendendo di fatti il servizio sanitario inaccessibile”.
Anche Josephus è uno dei rifugiati di Sfax: “Ho spiegato a molte persone che le strutture mediche sono terribili. Le persone vanno negli ospedali di Jbeniana o Sfax, ma non ci prestano attenzione, non si prendono cura di noi. La gente muore, anche in caso di emergenza, come una donna in travaglio: chiamiamo il numero di emergenza, ma non vengono. È stato un colpo di fortuna per molti di noi, che siamo riusciti a incontrare persone con competenze mediche, come medici e infermieri, che hanno iniziato ad aiutare. Ma se la sopravvivenza quotidiana sembra già impossibile, l’ombra delle violenze peggiora tutto. Le persone sono bersagli costanti di attacchi da parte di alcuni cittadini locali: violenze fisiche, furti, stupri. Le donne subiscono abusi che restano impuniti. E poi ci sono le forze dell’ordine che aggiungono benzina sul fuoco: raid notturni che distruggono accampamenti, tende bruciate, persone arrestate e deportate ai confini senza alcuna forma di tutela. Con ogni sgombero, il poco che le persone riescono a costruire viene annientato, e loro restano senza nulla, esposte al freddo, alla pioggia e all’assenza di speranza”.
David di Refugees in Libya: “Con questa situazione, le malattie, l’acqua contaminata che erano costretti a bere ogni giorno, la polvere negli uliveti, le donne incinte che non potevano essere trasferite in ospedale, e con la nascita delle nuove milizie, le milizie cittadine. Ricordo il nome di un parlamentare tunisino, Abdallah Gamoudi, che ha sostenuto la formazione di queste milizie cittadine. Ora queste milizie cittadine gestiscono gruppi armati lungo la costa del Mediterraneo dove si trovano i migranti. Queste persone sono armate con machete, fucili, pistole. Sparano senza pietà. Catturano queste persone per rubare telefoni, denaro, o per abusare delle donne, che sono poi sottoposte a stupri e altre atrocità. In base alle informazioni che sto ricevendo, ovviamente la maggior parte degli attacchi avviene perché la polizia tunisina arriva periodicamente, ma la milizia dei cittadini è qualcosa che persiste nel tempo, sta crescendo sempre di più. Direi che ora è quasi il 60% della violenza ad essere commesso dai civili, violenza che, sai, toglie la vita alle persone. Ma chi c’è dietro queste persone? Perché non vengono perseguiti se sono persone comuni che commettono violenza senza alcuna conseguenza o ripercussione? Quindi significa che lo stato sovrintende a queste vicende e sceglie di non perseguire i criminali e legittima le persone alla violenza perché non c’è persecuzione nei loro confronti”.
Josephus: “Ma siamo ancora esposti ai ragazzi tunisini, che spesso vengono ad attaccarci, danneggiano le nostre cose e se ne vanno. Se proviamo a reagire, la polizia arriva, brucia le tende, arresta le persone e le abbandona. Non abbiamo alternative. Uliveto dopo le violenze e lo sgombero Joy ci racconta come vengono costruite le case di fortuna, periodicamente distrutte dagli attacchi o dalle ondate di maltempo, esponendo ancora di più le persone che le abitano al freddo e alle violenze: Come sopravviviamo? Facciamo delle tende improvvisate non con teloni, ma con nylon. Perché i teloni sono persino più spessi e migliori. Nylon di plastica, questo è ciò che usiamo per costruire. Poi copriamo l’interno con coperte, pezzi di coperte. E facciamo i letti con la sabbia. Li rialziamo un po’, poi stendiamo stuoie, mettiamo cartoni e dormiamo con coperte. Poi dormiamo con l’opportunità di avere pezzi di gommapiuma, che raccogliamo casualmente da terra. E li usiamo per dormire. Quindi, fondamentalmente, è così che sopravviviamo nel campo. Le tende accuratamente costruite e messe insieme anche solo con sacchi di plastica con i pochi materiali disponibili, vengono periodicamente rase al suolo. A tali attacchi segue cupa disperazione ed una continua, persistente ricerca di nuovi rifugi, alcuni provano a ricostruire con i resti rimasti, alcuni si muovono verso altre posizioni, ancora ed ancora. In questi episodi di ferocia inaudita si perde cibo, materiali di vario tipo, vestiti e perdita di speranza. Chi non riesce a trovare nemmeno buste di plastica, dorme sotto gli alberi esposto al freddo e facilmente si ammala. Sempre in una logica di profitto, ogni volta che i ripari vengono distrutti, i tunisini alzano i prezzi di tende e beni di prima necessità in una pratica crudele di incremento del profitto. Alcuni testimoni raccontano che è impedito l’aiuto volontario e la distribuzione di beni gratuiti a meno che non siano, appunto, venduti”.
Nonostante le violenze e i soprusi quotidiani inflitti da tutte le frange della popolazione nei campi, Joy afferma quanto segue: “Sono rimasta a Zarzis per circa quattro o cinque mesi. La polizia ha poi evacuato tutti dall’edificio. È così che mi sono ritrovata a El Ambra, a Sfax. Da allora sono rimasta lì. E da allora ottenere un alloggio a Zazis è diventato estremamente difficile. Quindi non mi sono nemmeno più disturbata a tornare lì perché non ho dove stare. Non puoi andare in città, lasciare la boscaglia dove hai una tenda improvvisata, per andare a stare in edifici dismessi. Voglio dire che nelle città la polizia può venire quando vuole e fare ciò che vuole. Non puoi scappare. Ma se sei nel campo, se la polizia viene, puoi trovare almeno un modo per scappare. Preferisco rimanere nei campi piuttosto che a Zarzis, dove si vive in un edificio incompiuto. Potresti essere in un edificio e il proprietario dell’edificio potrebbe voler completare il suo edificio. Devi andartene e iniziare a cercare un altro posto. Non voglio nemmeno parlare della mafia. Potrebbe venire in qualsiasi momento, rubare le tue cose o fare ciò che vogliono con le persone. Quindi preferisco ancora il campo, dove siamo insieme. Se succede qualcosa, gridi “ladro, ladro, ladro”, molte persone usciranno per aiutarti. In città non c’è niente del genere”.
A questo si somma l’assenza di organizzazioni internazionali, una mancanza che pesa come un macigno su una popolazione lasciata a sopravvivere senza rete di salvataggio. In questo clima di ostilità totale, ogni giorno è una sfida per mantenere dignità e vita. La violenza istituzionalizzata, la mancanza di tutele e l’indifferenza della comunità internazionale rendono questi campi il simbolo tangibile di un’umanità messa ai margini. Eppure, anche in questo inferno, le persone resistono, si organizzano, cercano soluzioni comuni, dimostrando una forza che non si lascia annientare. E’ su queste basi che prendono avvio le attività di assistenza medica, auto- organizzate dalle persone che vivono nei campi per rispondere alle sfide quotidiane, celebrando la cura, la vita e una forma di resistenza collettiva radicale. Saranno le parole del Doctor Ibrahim, di David, Josephus e Joy che ci permetteranno di capire come si snoda questo servizio e quali sono le maggiori difficoltà riscontrate . Mem Med: “David Yambio, insieme al movimento Refugees in Libia e alla solidarietà di altri della società civile internazionale hanno deciso di supportare emotivamente e logisticamente, gli sforzi già presenti nel campo per la costruzione e il mantenimento delle attività mediche, portate avanti con coraggio e dedizione giorno dopo giorno dalle persone che sono imprigionate negli uliveti”.
Ci racconta così il suo punto di vista sulla creazione dell’ospedale e il supporto offerto: “Di fronte a questa crescente necessità, non avevamo altra scelta. Ci siamo rivolti a Msf, che non poteva aiutarci. Abbiamo contattato l’Unhcr e abbiamo avuto diverse comunicazioni con l’inviato speciale delle Nazioni Unite, come Vincent Coshtel, ma anche loro non potevano aiutarci. La Mezzaluna Rossa, l’Irc (Comitato Internazionale di Soccorso) e la Croce Rossa non potevano fare nulla. In questa situazione, ci siamo rivolti alla comunità internazionale per mobilitare fondi e costruire un ospedale che ora rappresenta un’ancora di salvezza per innumerevoli comunità e malattie che vengono curate. L’idea dell’ospedale medico è nata per cambiare la situazione, poiché fino alla fine di gennaio, l’IOM visitava periodicamente i campi per fornire medicinali alle persone. Ma poi questo non è stato più possibile. Le persone non potevano più spostarsi. Le autorità tunisine hanno intrapreso una repressione a livello nazionale della società civile tunisina, iniziando a perseguire individui che dimostravano solidarietà o fornivano assistenza sociale o legale alle persone. Ciò ha rappresentato una minaccia enorme per la sopravvivenza delle persone che vivevano prevalentemente tra questi uliveti e che si trovano tutt’oggi a Jbeniana, El Amra e Sfax. Ma in sottofondo c’era già questo dottor Ibrahim, lui con un certo team che ha iniziato a offrire questo servizio medico per curare e aiutare i pazienti, per far nascere bambini, fare innumerevoli cose mediche. Ci hanno cominciato a dire che avevano bisogno di aiuto, l’aiuto non sarebbe arrivato attraverso il governo tunisino o attraverso le Ong presenti in Tunisia. E’ stato allora che abbiamo detto: ok, proveremo a supportarvi e ad ampliare il vostro ospedale. Questo ospedale servirà quindi come punto di cura per le persone degli altri chilometri. Sono numerose le persone che ogni giorno dedicano le proprie energie al supporto del team medico costituite all’interno dei campi di ulivi. Si sono ormai costituiti diversi ospedali con molteplici soggettività che con le loro competenze professionali o animate dal bisogno di prestare aiuto, supportano l’ospedale”.
Il Dottor Ibrahim è un altra figura importante per la buona riuscita delle attività mediche. Ibrahim da oltre un anno insieme alla sua squadra di cura è un baluardo in questa desolazione impressionante mostrata dai video racconti e le foto o le parole che giungono attraverso le differenti comunità. Storie di abbandono e violenza costruite, determinate e supportate dalle politiche dei paesi ricchi, dal nostro Paese, che hanno disegnato una distanza d’offesa, dove diventa possibile la lenta uccisione di coloro che tentano di attraversare le frontiere: senz’acqua, senza cibo, senza riparo, senza aiuti, senza vestiti, privati del diritto alla dignità umana. Dignità che i migranti in Sfax riprendono e rivendicano con la forza delle loro proteste, con il lavoro indefesso di cura reciproca, sfidando le politiche europee che continuano a calpestare, ferire, uccidere, derubare. Sfax olivete- senza riparo dopo violenze e sgombero.
Così ci racconta: “Sono arrivato in Tunisia nel gennaio del 2024, sono della Sierra Leone anche io come tanti volevo raggiungere l’Europa. La situazione dal punto di vista umanitario era tremenda quindi ho investito tutte le mie risorse e forze. Non potevo chiudere gli occhi, non potevo andarmene. Io sono un medico e non potete immaginare che situazione ci sta qui a Sfax, nei campi delle olive. Sono il fondatore del black medical team a Sfax, dove lavoriamo, nel deserto, in mezzo ai campi di migliaia di migranti, come volontari senza pausa da oltre un anno ormai. Ognuno di noi ha la sua responsabilità nei diversi chilometri degli oliveti ( ad esempio la struttura del km 33 copre anche il km 31, 32 e 34. Siamo anche noi migranti e proviamo ad aiutare i migranti come noi. La realtà di Sfax è fatta da diversi chilometri a cui corrispondono gruppi differenti: al km 38 si trova il mio ospedale. In questi chilometri vivono in condizioni disumane migliaia di persone tra uomini donne e bambini. Il mio telefono squilla in continuazione per richieste di aiuto di ogni tipo e per vari tipi di malattie. Con me ci sono altre persone che aiutano chi sta male e sono tantissime: abbiamo affrontato malattie infettive, malattie dovute alla mancanza di ogni bene ( acqua, cibo, coperte,riparo igiene, assistenza minima, il caldo eccessivo e il freddo eccessivo) e lesioni ricevute a seguito delle violenze di polizia. Tutti i soldi che arrivano li utilizziamo per le medicine e di beni di prima necessità”.
Il sostegno economico necessario per mantenere attive le attività mediche nei campi di ulivi a Sfax è stato il risultato di uno sforzo collettivo straordinario. Grazie al crowdfunding promosso da Refugees in Libia e alle donazioni solidali provenienti da ogni parte del mondo, si è potuto garantire un supporto essenziale. Tuttavia, una parte significativa dei fondi è stata raccolta con enormi sacrifici personali: molti hanno mendicato, svolto piccoli lavori occasionali o, in alcuni casi, rinunciato alla propria razione di cibo quotidiana per devolvere il poco che avevano al benessere della comunità.
Continua il Dottor Ibrahim: “Qui la polizia nei vari chilometri è venuta spesso a togliere ogni cosa lasciando le persone senza coperte. che in questo periodo si sono trovate al freddo senza mangiare. Le immagini più tremende che vediamo sono quelle di donne e bambini che sono costrette a fare l’elemosina perché non si riesce nemmeno a mangiare. Io non so come descrivere questo disastro umanitario. Anche dal punto di vista politico non saprei cosa esprimere se non che siamo immersi in una condizione disastrosa di cui ci occupiamo ogni giorno, sono concentrato su quello. Immaginate donne che devono partorire , persone con handicap ( e ce ne sono tante) bambini malnutriti e che muoiono per il freddo. Anche solo portarli in ospedale è difficile perché non si può fare senza soldi e spesso le persone hanno paura di finire in carcere, perché è accaduto anche questo se stai male e vai in ospedale puoi finire in carcere. Quando le persone fanno l’elemosina vengono spesso picchiate dai tunisini, anche ragazzi giovanissimi. Come nel caso di un dodicenne investito da un motorino e nemmeno soccorso che poi ho curato io e che vive al km 36. Ci sono stati casi di polmonite per cui abbiamo avuto ed abbiamo bisogno non solo di medicine ma della strumentazione per valutare la situazione e qui io ho soltanto il fonendoscopio. Durante gli attacchi di polizia ( sono venuti diverse volte con le ruspe) sono stati usati lacrimogeni che hanno provocato diversi casi di asfissia, alcuni fratelli sono morti così. A causa del freddo alcuni hanno riscaldato le tende con charcoal e sono rimasti asfissiati […] “. ” Ho curato anche diversi casi di persone vittime di naufragio con danni da acqua salata, disidratazione, shock. L’acqua salata crea molti danni alla pelle ed i sopravvissuti hanno necessità di reidratarsi e riprendere le forze. Alcuni hanno gravi lesioni da bruciatura chimica delle gambe a causa del gasolio galleggiante che va a contatto con le persone che si trovano in acqua, mischiato al sale marino il gasolio brucia le parti colpite. Il problema più rilevante è sempre quello di non avere medicine sufficienti per i trattamenti , soprattutto in situazioni gravi ed urgenti in cui non sappiamo veramente cosa fare ed in un luogo così pericoloso è terribile. Siamo abbandonati sia dal governo tunisino che dalle organizzazioni non governative, senza l’aiuto di alcuni donatori saremmo già tutti morti nel deserto”.
Mem. Med: “ I naufragi molti dei quali invisibili, vedono alcuni dei sopravvissuti ributtarsi nei campi di Sfax pieni di ferite fisiche e mentali, curate dai medici ed infermieri ed infermiere dell’equipe di Ibrahim. Un esempio riguarda il naufragio del 16 novembre 2024, di fronte alle coste tunisine, dove su 53 persone ne sono sopravvissute 23. Il 24 novembre un altro naufragio ha visto la morte di 34 persone con 24 sopravvissuti, sempre di fronte alle coste tunisine”. “Abbiamo immediatamente iniziato i trattamenti necessari per i sopravvissuti, anche in questo caso il materiale è finito subito” Nei campi rapidamente girano le informazioni anche sui continui respingimenti nei deserti vicino alla zona di Ben Garden, vicino al confine libico, o in Algeria, vicino Tamanrasset o ad Assamaka, con il tentativo continuo da parte dei migranti dei campi di Sfax di provare a sostenere chi si trova in situazioni mortali di questo tipo. Si tratta in molti casi di chi è stato fermato in mezzo al mare o alla frontiera sud e respinto indietro senza alcuna possibilità di sopravvivere. Tali episodi non sono affatto evento recente ma fin dal 2015 si sono andati ampliando a seguito delle politiche di esternalizzazione europee che hanno riguardato “ accordi informali” con paesi come il Niger, la Libia, La Tunisia, persino il Sudan per trasformare i paesi di transito in guardie della fortezza Europa a fronte di ingenti quantità di denaro. Coloro che vengono abbandonati nel deserto vengono negati dalle autorità che finge che essi non siano mai esistiti; fortunatamente le reti di attivisti e comunità continuano a costruire memoria ed in alcuni casi a salvare da morte certa centinaia di persone”.
Mem. Med. “Insieme ai disastri e le violenze nei campi di Sfax continuano a nascere bambini anche grazie alle cure dell’equipe medica, bambini che avrebbero bisogno di latte, nutrimento ed una condizione di sicurezza e protezione, una casa e la possibilità di cure adeguate; insieme a loro decine e decine di migranti con disabilità derivante dal viaggio o dalle torture subite nel percorso”. Una testimonianza: “Alcune persone con disabilità grave non possono camminare o addirittura hanno una sedia a rotelle per stare nel deserto! E’ il caso di una coppia in cui lei è su sedia a rotelle e lui ha una sola gamba. non si può immaginare la disperazione. La polizia ci danneggia continuamente, una volta al km 35 mi hanno attaccato e lì ho perso la mia macchina per la pressione. Viviamo in una condizione miserabile, noi possiamo resistere ma le donne, i bambini, gli invalidi devono essere portati via da qui, al più presto. Ogni giorno ringrazio la mia equipe per quello che fanno, per la resistenza e la forza e tutte le grandi organizzazioni qui dove sono? oim, unhcr, msf? dove sono..sono solo grandi nomi senza verità. A volte alcune persone con organizzazioni controllano il numero di persone e prendono dati ( data di nascita, nazionalità, se sono sposati o single..). Ci dicono che oim e unhcr non possono arrivare..ma è una scusa che ci danno. qui non esiste umanità. Fanno rilevamenti e scopriamo poi che chiedono in giro se qualcuno vuole essere rimpatriato volontariamente, ma non è un rimpatrio volontario, molti si sentono forzati da condizioni subumane e tremende, non è giusto” .
Mem. med. : “Ogni giorno il telefono di Ibrahim e dei suoi colleghi e colleghe squilla ininterrottamente per nuove nascite, racconti di manganellate della polizia, violenze a bordo strada da parte di inferociti tunisini, piogge torrenziali in questi giorni e freddo che peggiorano le già terribili condizioni di vita ferite con machete e conflitti interni anche alle comunità difficili da curare e disinfettare, urgenze che richiedono intervento in ospedale e soldi senza i quali ad esso non si accede. Un lavoro impressionante, inimmaginabile fatto con mezzi praticamente nulli”.