Le scelte imposte dai partiti

Consulta, gap di genere e voto segreto: quante ombre sull’elezione dei giudici

Dopo 460 giorni e 14 scrutini, il Plenum è stato finalmente ripristinato, sanando così il vulnus costituzionale denunciato dal Colle. Non mancano però osservazioni critiche su come il Parlamento ha esercitato il proprio ruolo nel rinnovo parziale della Corte

Giustizia - di Andrea Pugiotto

5 Marzo 2025 alle 13:36

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Photo credits: Francesco Ammendola/Imagoeconomica
Photo credits: Francesco Ammendola/Imagoeconomica

Il 19 febbraio i nuovi giudici della Corte costituzionale hanno giurato al Quirinale, dinanzi alle più alte cariche dello Stato: auguri di buon lavoro. Dopo 460 giorni e 14 scrutini, il plenum della Consulta è stato così ripristinato: ottima notizia. Il «vulnus alla Costituzione», lamentato mesi fa dal Quirinale, è riassorbito: era ora.
Detto ciò, sia consentita qualche riflessione critica su questo epilogo: «a futura memoria, se la memoria avrà un futuro», come ammoniva, scettico, Leonardo Sciascia.

Innanzitutto, impressiona in negativo la confermata avversione – da sempre presente nei parlamentari della Repubblica – a valorizzare i saperi e le competenze delle giuriste. Al riguardo, le cifre sono impietose. Dal 1956 ad oggi, alla Corte costituzionale sono stati designati complessivamente 123 giudici: 114 uomini, 9 donne. Di queste, 6 indicate dal Quirinale (Contri, Saulle, Cartabia, De Pretis, Navarretta, Sciarrone Alibrandi), 1 dalle giurisdizioni superiori (San Giorgio) e solo 2 dalle Camere riunite (Sciarra e, ora, Sandulli). Il tempo restituisce tutta la lentezza di un processo collettivo così deludente. Ci sono voluti 40 anni perché alla Consulta entrasse una giurista (Contri, nel 1996). Ne sono serviti 58 al Parlamento in seduta comune per eleggervi finalmente una donna (Sciarra, nel 2014). Peggio di tutti sono riuscite a fare le magistrature superiori: se la Cassazione soltanto nel 2020 ha eletto una giurista, analoga scelta non è mai venuta dai membri della Corte dei conti e del Consiglio di Stato. Sono così trascorsi 63 anni (e 23 dalla prima giudice alla Consulta) per poter vedere una donna alla presidenza della Corte costituzionale (Cartabia, nel 2019).

Questa volta, le condizioni per rimediare a un così primitivo gap culturale erano particolarmente promettenti: 4 giudici da eleggere; la necessità di un accordo tra maggioranza e opposizione, entrambe a leadership femminile; la presenza nell’attuale Corte costituzionale di 3 donne giudici, con la possibilità di un effettivo riequilibrio di genere all’interno del collegio. È andata diversamente. Per di più – stando alle cronache – la condizione preliminare e minimale di (almeno) una candidatura femminile su quattro è stata vissuta dalle forze politiche come un problema, risolto solo attraverso l’escamotage di una scelta “tecnica” e non politica: nessun partito, infatti, ha rinunciato al proprio uomo. Da tempo, il contributo di tante giuriste alla vita del diritto e all’interpretazione della Costituzione è di assoluto pregio: nell’accademia, nell’avvocatura, nell’esercizio della giurisdizione. I parlamentari (deputate e senatrici incluse) sembrano non essersene accorti. Hanno scelto altrimenti, esercitando – come è stato detto – la propria discrezionalità: appunto.

In realtà, si è trattata di una discrezionalità eterodiretta. Chiamati a contribuire al rinnovo parziale della Consulta, i parlamentari hanno appaltato la loro prerogativa costituzionale ai vertici di partito. Fin dalla prima convocazione (l’8 novembre 2023) e per tutti i quattordici scrutini, deputati e senatori hanno smesso i panni dei grandi elettori per vestire quelli dei piccoli soldatini di piombo nelle mani dei propri generali. Schede bianche, fumate nere, astensioni di gruppo, aventini simulati, nessuna autonoma iniziativa a sbloccare l’impasse, fino alla seduta del 13 febbraio scorso, quando – presenti e votanti 539 parlamentari – sono stati eletti i nuovi giudici con uno scrutinio dall’esito numerico omogeneo: Luciani (505 preferenze), Cassinelli (503), Sandulli (502), Marini (500).

Nulla di strano né di illegittimo, si dirà. Gli elevati quorum richiesti impongono il confronto e la convergenza tra le forze politiche. E per individuare le candidature, l’approccio top down è più funzionale di uno bottom up. A valle, comunque, la scelta finale è stata dei parlamentari: a impedire una designazione imposta dall’esterno alle Camere, assicurandovi un consenso non solo formale, ha provveduto la regola dell’elezione «a scrutinio segreto» (art. 3, legge cost. n. 2 del 1967). Ma questa indispensabile garanzia costituzionale è stata effettivamente rispettata? Il dubbio sorge perché ogni elettore ha votato su un’unica scheda dove poteva indicare non più di quattro nominativi. È la modalità ideale per controllare, ex post, il rispetto degli ordini di scuderia da parte dei parlamentari: basta concordare preventivamente – tra i vari gruppi – un differente intreccio nella collocazione delle preferenze, e il gioco è fatto. Formalmente rispettata, la segretezza del voto può essere nella sostanza aggirata. Allo stesso tempo, la simultaneità dello scrutinio preclude il rischio di possibili veti reciproci, assicurando la tenuta dell’accordo complessivo.

È andata così? Induce a sospettarlo l’equivalenza numerica nelle preferenze espresse. Però non è dato saperlo: le operazioni di scrutinio non sono state svolte pubblicamente, ma dai segretari di presidenza della Camera, a seduta sospesa. Una volta ripresa, si è dato lettura del risultato complessivo della votazione, proclamando gli eletti. Si parva licet, farebbe bene il presidente Fontana a dissipare ogni dubbio in proposito. Ben sapendo che non varrebbe appellarsi a precedenti parlamentari: l’accordo unanime tra i gruppi, infatti, legittima la deroga a norme del regolamento della Camera, non anche a un’esplicita regola di rango costituzionale. La matrice del problema è nell’elezione “a pacchetto” che – come già nel 2015, quando furono eletti insieme i giudici Barbera, Modugno e Prosperetti – è stata ora confermata e incrementata. Salvo sopravvenuti impedimenti individuali, accadrà di nuovo tra nove anni, a fine mandato dei neo-eletti. Oggi, cioè, si sono create artificialmente le condizioni per un futuro appuntamento al buio: quali saranno, nel 2034, i rapporti di forza in Parlamento? Chi può escludere che la maggioranza di governo di allora potrà scegliersi, in solitudine, il poker di candidati?

Nel frattempo – si dirà – l’elezione contestuale di 4 giudici ha perlomeno agevolato il ripristino della regolare composizione della Consulta. E tutti i neo-eletti hanno ampiamente superato il quorum richiesto dei tre quinti dei componenti l’Assemblea elettiva (363 voti). Obiettivo costituzionale centrato, dunque? Certamente, ma solo nella forma. Va, infatti, ribadito che la logica “a pacchetto” svuota l’autentica ratio delle maggioranze qualificate, che la Costituzione richiede a garanzia di singole scelte condivise. Perché, anche quando si devono eleggere più giudici contemporaneamente, ognuna è «una scelta rigorosamente individuale» (come ha spiegato il Quirinale). Non è andata così. Ha invece prevalso, alla fine, un meccanismo compensativo retto da un tacito accordo: non sindacare il candidato altrui, anche se giudicato non votabile isolatamente nei precedenti scrutini.

Un’ultima riflessione. Per troppi giorni la Corte costituzionale ha rischiato l’arresto cardiaco, potendo funzionare solo «con l’intervento di almeno undici giudici» (art. 16, comma 2, legge n. 87 del 1953). Ciò espone l’operatività del collegio ai cronici ritardi parlamentari, ora aggravati dall’alto numero di giudici da sostituire contemporaneamente. Ritardi che potrebbero, in futuro, mirare alla sua paralisi. È bene allora disilludere i tanti nemici del controllo di costituzionalità. Indefettibile, in Costituzione, è il principio della sua rigidità: la legge, cioè, non può disporre contra Costitutionem. Altrimenti è illegittima. Tale rigidità è garantita in forma accentrata da un giudice ad hoc, qual è la Corte costituzionale. Ma se questa fosse “paralizzata”, risorgerebbe – fino al suo regolare ripristino – un controllo diffuso di costituzionalità. Come dal 1948 al 1956 quando, non ancora costituita la Consulta, le sue funzioni erano esercitate dalla magistratura. Così dispone la VII disp. trans. finale della Costituzione: una clausola di salvaguardia evergreen. Teniamocela stretta.

5 Marzo 2025

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