La penisola fanalino di coda
Come funziona la settimana corta in Spagna: meno ore di lavoro, più soldi: l’Italia ferma al Medioevo
Madrid dà il via libera alla svolta: da 40 ore a 37,5 a parità di salario, ed extra retribuiti come straordinari. Aumenti anche per i part-time. Ma da noi la destra ha già affossato la proposta equivalente di Fratoianni...
Politica - di Marco Grimaldi

Il governo ha appena dato il via libera alla proposta di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. La settimana lavorativa passa da 40 a 37,5 ore. Così, il disegno approda al Parlamento. In Spagna. Una legge che coinvolgerebbe circa 12 milioni di lavoratori e significherebbe anche un aumento degli stipendi: le ore extra lavorate oltre le 37,5 sarebbero retribuite come straordinario. Dopo un periodo di transizione, multe fino a 10.000 euro a lavoratore per le aziende che non rispettano le nuove regole. Altri due effetti: i part-time, con lo stesso numero di ore (che ora però sono una più ampia percentuale della giornata lavorativa), dovranno ottenere un aumento salariale; le donne, il 75% dei contratti part-time, vedranno un miglioramento sensibile delle proprie condizioni di lavoro.
Qui in Italia, proprio in queste ore alla Camera dei Deputati, dopo un’ennesima bagarre in aula, la maggioranza e il Governo hanno rinviato in commissione la proposta di legge delle opposizioni a prima firma Fratoianni: lavorare meno, vivere meglio. Intanto, nel mondo e in Europa si torna a discutere di come lavorare meno (e meglio) e a sperimentare o legiferare in tal senso. In Islanda, dal 2016 l’86 per cento dei lavoratori ha optato per la settimana corta. In Belgio, all’inizio del 2022 è stata introdotta per gradi la settimana lavorativa corta di quattro giorni. In Portogallo, dal 2023 è in corso un progetto pilota in 46 aziende per la settimana lavorativa di quattro giorni.
L’organizzazione del lavoro a orario ridotto si sta diffondendo in Francia, in Germania, nei Paesi Bassi, in Danimarca, in Norvegia e in Svizzera, in Gran Bretagna. E nella Penisola dei famosi che cosa accade? Più che altrove, da noi corrono in parallelo la parabola della riduzione dei salari e quella dell’aumento degli orari. Quando gli orari si riducono, è un fatto subìto e non scelto dai lavoratori e (soprattutto) dalle lavoratrici: oltre un part-time su due è involontario. Dunque, c’è chi lavora troppo e chi lavora troppo poco. Tuttavia, continuiamo a lavorare mediamente 40 ore alla settimana e abbiamo 6 milioni di disoccupati, fra cui 2 milioni di giovani. Eppure, anche qui alcuni contratti aziendali già prevedono la settimana di quattro giorni, anche se si tratta, per il momento, soprattutto di grandi gruppi che si confrontano con modelli già affermati all’estero. Vuol dire però che la riduzione dell’orario sta diventando uno strumento desiderabile per le imprese, non solo per i lavoratori e le lavoratrici.
Perché, nelle aule del Parlamento, non è mai il momento giusto per aprire questa discussione? La società, ancora una volta, sembra essere più avanti rispetto al dibattito politico. E la proposta unitaria delle opposizioni, questa mattina, è approdata in aula già ipotecata da una chiusura totale da parte del Governo e della maggioranza. Eppure, non è certo il caso di arrendersi. Semmai, bisogna fare di questa – ancora una volta – una grande battaglia sociale e culturale. D’altra parte, è stato nei momenti più duri che abbiamo saputo scegliere questa strada. E dalle condizioni più drammatiche di lavoro che si è levata con maggiore forza la voce di lavoratori e lavoratrici che chiedevano tempo. È ora di organizzarsi fuori da queste aule. In Italia, alla fine dell’Ottocento nelle filande le operaie lavoravano in media 16 ore al giorno. Lo dobbiamo a loro, se una legge del 1899 ha fissato un massimo di 12 ore e interdetto il lavoro notturno per le donne e per i ragazzi dai 13 ai 15 anni. Nel 1906, alla fine di maggio, la rivendicazione delle 8 ore di lavoro diventò il punto centrale delle agitazioni contadine, in particolare delle «mondine». E dobbiamo alle lotte operaie l’accordo per le 48 ore siglato nel 1919 dalla Fiom. Nel 1923, con un decreto, le 48 ore divennero «l’orario legale» per tutti.
Negli anni Trenta, con la disoccupazione di massa figlia della crisi del 1929, fu addirittura Giovanni Agnelli a proporre la settimana di 32 o di 36 ore. I rinnovi contrattuali del biennio 1962- 1963 segnarono il culmine della ripresa delle lotte operaie negli anni del «miracolo economico» e siglarono una riduzione dell’orario settimanale a 44 ore in quasi tutte le categorie. Dal secondo dopoguerra alla crisi del petrolio del 1973 gli orari sono stati progressivamente ridotti. Poi è entrata in crisi la relazione fra incremento del prodotto per occupato e aumenti salariali. E la parabola della riduzione dei tempi di lavoro si è invertita, insieme a quella dei diritti dei lavoratori. Il dato delle ore lavorate in Italia è oggi al di sopra di quello dei Paesi con il Pil pro capite più alto. Mentre in Germania si lavora, in media, 1.356 ore all’anno, in Italia questa cifra è di 1.723 ore. L’Italia, subito dopo la Grecia e l’Estonia, è il Paese dell’area euro dove si lavora di più.
Eppure, come dicevo, da un lato abbiamo lavoratori a tempo pieno il cui orario di lavoro spesso si allunga al di là delle 40 ore settimanali. Dall’altro, l’esercito crescente dei lavoratori part-time: sottoccupati che non sono altro che working poor. E proprio nel tempo di lavoro risiede una delle ragioni principali della disparità salariale fra uomini e donne, perché l’occupazione part-time è una questione prevalentemente femminile. E poi c’è una questione generazionale: nella fascia tra i 25 e i 29 anni, a essere occupate sono due persone su tre, il valore più basso di tutta l’Unione europea. Le giovani generazioni sono le più colpite dalla precarietà e dai bassi salari. Le grandi dimissioni non devono stupire nessuno.
Dove il lavoro è frammentato, precario, povero, trova terreno lo sfruttamento intensivo: straordinari, cottimo. Tutte forme di abuso del tempo. Ecco perché liberare il tempo delle persone dovrebbe essere una grande missione epocale della politica. Facendolo, non si perderebbe nulla, anzi. Aumenterebbe la qualità del lavoro e la produttività, crescerebbe l’occupazione, si ridurrebbero le malattie legate all’iperlavoro, si produrrebbe un riequilibrio di genere e sarebbero poste le basi per un nuovo patto generazionale. Si ridurrebbe il nostro impatto ambientale e, soprattutto, restituiremmo alle persone il loro tempo di vita privata, sociale, familiare, culturale.
La proposta è semplice: favorire la sottoscrizione di contratti collettivi di lavoro per definire modelli organizzativi che comportino la progressiva riduzione dell’orario di lavoro fino a 32 ore settimanali, a parità di salario, accompagnati da investimenti nell’ambito della formazione e dell’innovazione tecnologica e ambientale. Eppure il governo Meloni – come avvenne per il salario minimo – ha tentato di liquidare la proposta con i soliti trucchetti. Dopo un’aspra battaglia in Parlamento, le opposizioni sono più unite che mai e torneranno alla carica. Faremo di tutto, però, per portare questa discussione fuori dal Parlamento, e fare in modo che sia patrimonio di tanti e tante, per tornare a bussare alle porte della politica ancora più forte di oggi.