L'anniversario della scomparsa

Bettino Craxi, un socialista a 24 carati: le emozioni, il pensiero, gli errori del leader del Psi

Sbagliato considerarlo uno spregiudicato capo politico. Credeva nella storia del movimento, era liberale, risorgimentale, riformista. Portò modernità ma anche sentimenti nella politica italiana. Travolto dall’anticomunismo. Fece molti sbagli e gliela fecero pagare in forme spietate

Politica - di Goffredo Bettini

19 Gennaio 2025 alle 18:00

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Foto LaPresse Torino/Archivio storico
Foto LaPresse Torino/Archivio storico

Sono passati 25 anni dalla morte di Bettino Craxi. Almeno in parte, si sono depositate le polveri di una polemica strumentale sulla sua figura umana e politica. Non intendo eludere i problemi che ancora oggi pesano. Essi, tuttavia, vanno affrontati con misura e un certo distacco, in grado di storicizzare le idee e gli avvenimenti. Superando odi imperituri e miserevoli convenienze dell’oggi.

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Cosa è stato Bettino Craxi? Difficile spiegarlo in un intervento che non può superare più di tanto i limiti di un quotidiano. Preferisco qualche nota sparsa che affronti alcuni passaggi per me fondamentali. È sbagliato ridurlo a una sorta di spregiudicato capo politico, emerso in una congiuntura della storia dei socialisti italiani, dalla quale si sarebbe smarcato, per diventare, nella sinistra, un caso patologico. Craxi fu un socialista e un democratico. Naturalmente con le sue peculiari caratteristiche e idee. Lo dimostra la sua formazione adolescenziale in una famiglia antifascista. E poi le sue precoci esperienze giovanili, nelle organizzazioni del partito socialista e nelle associazioni studentesche e universitarie. Le testimonianze raccontano di una personalità fin dalla giovinezza di grande intelligenza e vivacità; ribelle e con qualche tendenza alla prepotenza.

Dai suoi esordi, marcò una distanza ideale, e persino emotiva, dai comunisti italiani. Non solo circa il sistema dei valori; piuttosto, per la percezione viva dello squilibrio di forza, che riteneva “ingiusto”, tra il Pci e il partito socialista. Raccontò il senso di rabbia che ebbe quando, da ragazzo, entrando nel grande palazzo del sindacato milanese, dopo aver attraversato le stanze imponenti e perfettamente funzionali delle sigle aderenti al Pci, arrivò finalmente in un piccolo spazio, povero e abborracciato, nel quale erano collocati i sindacalisti socialisti. Già allora si radicò in lui la ferrea volontà, in alcuni casi spropositata, di difendere “l’autonomia socialista”, attraverso la quale ridurre la minorità che nella sinistra soffriva il suo partito. Riteneva insopportabile che la posizione da lui considerata più “giusta” (imperniata sullo sviluppo del progresso democratico) fosse minoritaria, e maggioritaria quella “sbagliata”, in continuità con il leninismo in minoranza, non sufficientemente autonoma dal campo del socialismo reale.

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Credo, tuttavia, che non seppe misurare e indagare con la necessaria serenità le peculiarità del Pci. E le ragioni storiche della sua forza. Accenno alle più importanti.
La storia del Pci era iniziata quando la partita con il fascismo si era già molto compromessa. Essi, per questo, non vennero percepiti come i protagonisti principali della sconfitta democratica degli anni Venti. Al contrario, i socialisti furono collegati direttamente alle agitazioni delle settimane rosse, orientate da parole massimaliste, che contribuirono a spostare ampi settori dell’opinione pubblica impaurita verso il movimento fascista, già in campo con la sua ferocia, al servizio dei padroni e della reazione. Una parte non marginale della rete straordinaria di solidarietà, di coraggio, che i socialisti avevano costruito giorno dopo giorno, passarono in blocco alle Case del fascio dopo le prime grandi sconfitte negli scontri di piazza, soprattutto nelle ragioni del Nord est.

Racconta Antonio Scurati che il prefetto di Ferrara, dopo le amministrative del 1920, in un suo rapporto scrisse: “La situazione appare incendiaria. Cinque carabinieri sono stati pestati a sangue. Molti elettori sono stati costretti a votare i con le mani alzate. I militanti proletari si sentono immuni. Gli abusi amministrativi si moltiplicano. Consiglieri socialisti arrivano persino a votare la copertura finanziaria delle loro spese elettorali con denaro pubblico”. Il 23 novembre, un editorialista del Corriere della Sera si domanda: “Di chi è la colpa di questa situazione? Chi, se non il partito socialista, aspira alla guerra civile? La battaglia trova necessariamente i suoi combattenti anche dall’altra parte “.

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Inoltre, c’è da dire che la fortuna dei comunisti italiani durante il fascismo fu dovuta molto a Gramsci. Egli fu leninista. Ma accompagnò la visione del partito del leader bolscevico con l’urgenza di una ricognizione culturale e storica dell’Italia; che diede un’impronta decisiva all’orientamento dei comunisti italiani dopo la Liberazione e una bussola concreta per le scelte di Togliatti e del suo nuovo gruppo dirigente. Il suo sguardo si concentrò sulla complessità culturale, morale e sociale nella quale si sarebbe dovuta realizzare la rivoluzione italiana.

La conquista in un sol colpo dello Stato borghese gli apparve dubbia e poco praticabile; perché lo stesso Stato si presentava sfrangiato e irrisolto. La dialettica tra oppressi e oppressori non si definiva nell’ambito di classi omogenee e coscienti della loro funzione storica. Gli spazi andavano conquistati in virtù di alleanze molecolari e di una offensiva intellettuale e ideale. La lotta doveva coincidere con la ricostruzione di una coscienza nazionale e l’assunzione di una responsabilità storica da parte delle classi lavoratrici. C’è tanto Machiavelli in questi ragionamenti: l’assenza in Italia di una élite in grado di unificarla. Il venir meno della grande politica da parte di “principi”, che non avevano la forza necessaria per realizzare una patria.

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Nella Resistenza, inoltre, nonostante il grandissimo contributo del socialismo italiano, i comunisti apparvero i più organizzati e concreti. Tanti giovani si avvicinarono a quel partito per questa semplice ragione: per combattere al meglio il nazifascismo. Erano anche di formazione liberale, storicistica e di variegata cultura: a Roma, Alicata, Ingrao, Bufalini, Trombadori e tanti altri. Questo portò, immediatamente dopo la guerra, a un gruppo dirigente comunista sensibile e aperto all’insieme della storia italiana e ad una vivida responsabilità nazionale.

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Insieme alle peculiarità del Pci, di cui fin qui ho parlato, fu decisiva l’impostazione di Togliatti circa un nuovo partito che superasse quello del periodo clandestino, conchiuso in se stesso, di quadri e disciplinato in modo quasi militare. Serviva apertura e lavoro di massa. Dopo la cacciata dei Tedeschi dal Mezzogiorno, Togliatti accentuò l’idea della guerra di Liberazione come una sorta di secondo Risorgimento.

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Infine, ancora un paradosso a sfavore dei socialisti, fu il prestigio che l’Unione sovietica ebbe dopo il 1945 sul piano internazionale. Intellettuali, artisti e politici di diverso orientamento, negli anni del Dopoguerra, contribuirono al mito di Stalin e dell’Armata Rossa, che avevano issato la bandiera sulla Berlino sconfitta. Questa temperie contagiò una parte grande dei socialisti, sicuramente fino al ’56 ungherese. Riporto le parole di Pietro Nenni, allora segretario del Partito socialista italiano, in occasione della seduta della Camera dei deputati del 6 marzo 1953, che rievocava la figura di Stalin, deceduto il giorno precedente: “Nessuno tra i reggitori di popoli ha lasciato dietro di sé, morendo, il vuoto che lascia Giuseppe Stalin. Da ieri sera manca qualche cosa all’equilibrio del mondo. In questa constatazione, comune a tutti, amici e avversari, è il riconoscimento unanime della grande personalità che è scomparsa”. Eppure, furono i comunisti italiani ad avvantaggiarsi in quegli anni del riconoscimento amplissimo verso lo Stato che nel ’17 aveva sconvolto il mondo, perché essi ne erano stati la filiazione diretta.

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Tuttavia, nella formazione politica di Craxi, furono decisivi gli anni Settanta. I frutti del ’68 e del ’69 studentesco e operaio, dopo il triennio successivo di risacca reazionaria, li raccolse il Pci; che, dopo il referendum sul divorzio del ’74, la conquista di tante regione e grandi città, raggiunse il suo massimo storico di consensi nel 1976 (circa il 34%). Va ricordato che in quegli anni i socialisti italiani, sotto la guida di Francesco De Martino, accompagnarono l’espansione dei comunisti con lealtà e spirito unitario. Si presentarono, infatti, alla competizione nazionale del 1976 con una posizione di grande generosità; dichiararono che mai sarebbero tornati a governare senza il Pci. Una legittimazione importante al voto per i comunisti come alternativa alle precedenti forme di governo, compreso il centrosinistra, al quale anche loro avevano partecipato.

Si era nella fase del dispiegamento del compromesso storico; strategia varata da Berlinguer nel 1973, dopo la caduta di Allende in Cile. Il compromesso storico venne accompagnato dall’affermazione del segretario dei comunisti italiani, secondo la quale non si sarebbe potuto governare il nostro Paese con una maggioranza del solo 51%. Il Psi avvertì, a pelle, l’esplicitazione di una sua inessenzialità. Non approfondisco in questa sede il significato più complessivo della proposta di Berlinguer. Fu grande politica. Tuttavia, in essa sta la radice della fiera reazione autonomista che portò Craxi a vincere il congresso del suo partito e a diventarne segretario. Quella politica conteneva, infatti, un’imprudenza e, per come si dispiegò, un errore politico circa i rapporti unitari a sinistra. Strinse i socialisti in una posizione marginale rispetto all’asse, comunque non facile, tra Pci e Dc. Se non si comprende bene questo passaggio, non si comprende neppure l’avvento di Craxi. Il risentimento che avevano nel cuore i socialisti per una loro funzione ancillare trovò spazio politico per un’iniziativa efficace. Craxi interpretò questa nuova fase, e ne fu per anni l’assoluto protagonista.

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Tanto più i comunisti, con una lealtà persino autolesionista, tenevano in piedi i governi dell’astensione o della loro partecipazione in maggioranza (senza mai ottenere propri ministri), tanto più con notevole eclettismo e intuizione politica, il capo socialista sollevò la radice della tradizione socialista, troppo misconosciuta e irrilevante. Il Psi si pose come l’alternativa al marxismo-leninismo. Fu contrario ad un’idea di Stato (durante il rapimento Moro) disumana e astratta. Rivalutò il “dettaglio” umano. Frenò una repressione della violenza giovanile che ritenne non sufficientemente garantista. Per la prima volta, i socialisti furono all’offensiva, formarono opinione, imposero e riscoprirono filosofi e autori. Difesero i dissidenti. Quelli cileni, palestinesi, dell’est. Craxi fu spiazzante, il Pci a rincorrere, rintuzzare e difendere. In modo ripetitivo e stanco, dopo la morte di Berlinguer.

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Mentre era impegnato nel massimo della manovra politica per tenere in piedi il governo Andreotti, Berlinguer nel 1977 affermò a Genova: “Ciò che ha contraddistinto la social democrazia […] resta dunque la rinuncia a lottare per uscire dal capitalismo e per trasformare in senso socialista le basi della società”.
È evidente che tali parole non potevano che incoraggiare da parte del Psi e di Craxi una scorribanda polemica su Marx e Lenin e sulla giustezza del valore del pensiero socialista e liberale: la riattualizzazione del pensiero di Proudhon, innanzitutto. C’è da dire che le intuizioni di Craxi furono, tuttavia, intorbidate da un anticomunismo incontrollato e troppo “di pancia”, di cui abbiamo già parlato. E poi, tra Berlinguer e Craxi, ci fu una differenza persino antropologica. Berlinguer, rispetto ai suoi tempi, andava in “bolina”, per molti aspetti era inattuale; ciò lo rese grande, amato e rispettato, contribuendo però ad una sua “prudenza” nel comprendere la fine del mondo al quale egli apparteneva. Craxi era vorace di vita, immediato, intuitivo, spericolato e navigava meglio negli scenari che si andavano aprendo, nella politica, nel costume, della dimensione sociale, nell’assetto produttivo.

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Il bilancio degli anni di governo di Craxi è riconosciuto da molti come positivo. Ci furono coraggio, tempismo, importanti intuizioni. Crebbe il prestigio dell’Italia a livello internazionale. Calò drasticamente l’inflazione, aumentò il pil, nacquero nel Nord est migliaia di piccole nuove imprese. Il reddito migliorò, così come il tenore di vita generale e i consumi. La politica estera fu, forse, il terreno sul quale Craxi diede il meglio di sé. Ribadì una lealtà atlantica, ma con autonomia e dignità. Disse no agli americani nell’episodio di Sigonella, avvertì il dittatore Gheddafi del piano statunitense di eliminarlo, perché violava ogni regola internazionale.

Ribadì una sua vocazione mediterranea. Promosse l’amicizia con i Paesi arabi ed un sostegno esplicito ai palestinesi e all’OLP. Sull’argomento, svolse in Parlamento un vigoroso discorso, invitò quel popolo a lottare con ogni mezzo possibile per la libertà. Disse: “Contesto all’Olp l’uso della lotta armata, non perché ritenga che non ne abbia diritto, ma perché ritengo che la lotta armata non porterà a nessuna soluzione […] Però non ne contesto la legittimità, che è cosa diversa…” Scandalizzando tutti i moderati e suscitando un caldo applauso dai caldi banchi della sinistra. Parole che inorridirebbero, oggi, una parte del Pd.  Aiutò i dissidenti dell’est, Solidarnosc ed ogni movimento democratico nei Paesi assoggettati all’Unione Sovietica.

Non tutto risultò apprezzabile. Il debito pubblico crebbe e da allora si incamminò su binari pericolosi e autodistruttivi. Lo scontro sulla scala mobile con la Cgil fu volutamente aspro. L’ottimismo di Craxi sull’Italia in parte si rivelò perverso, dando un segnale permissivo e incoraggiante ai comportamenti spreconi, goderecci e volgari. Che saranno, poi, la base antropologica del trionfo di Berlusconi nel 1994. Craxi sopravvalutò i risultati di consenso che stava realizzando e sottovalutò, ancora una volta, il peso reale che continuava ad avere il Pci in quanto formazione reale, storico politica, di popolo. Un corpo di straordinaria ricchezza, che cominciava a declinare, ma che continuava a svolgere, con la sua presenza possente, con il suo riformismo di governo, in migliaia di enti locali, un ruolo fondamentale e non sostituibile nella sinistra italiana.

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Craxi pensò d’intaccarlo definitivamente con l’azione di governo. Non valutò la sua capacità di resistenza. La densità della sua comunità; certamente intrappolata in un vecchio involucro che andava rimosso, ma ricca di connessioni umane, esistenziali, di aspirazioni giuste e generose. Anche quando Occhetto realizzò la svolta nell’89 e cambiò nome al partito, quando il comunismo internazionale era ridotto ad un cumulo di mattoni sfarinati in una striscia desolata di terra in mezzo a Berlino, non ebbe la forza e la profondità di pensiero per guidare un processo di nuova collaborazione con i post-comunisti italiani. Così, in cerca di approdi, Craxi sembrò in quel passaggio prudente, spaesato, senza una vera politica. Sappiamo bene quanto fosse forte la confusione nel Pci morente. E come partirono dalla sua trasformazione, schegge di ideologismo, di settarismo e di arretramento rispetto a ciò che erano stati i comunisti italiani.

La prima mossa spettava a Craxi. A chi aveva avuto ragione nella storia e in non pochi casi torto nei processi reali. In quel frangente, anche un uomo saggio e unitario come Paolo Bufalini mi disse: “Vedi, Goffredo. Nel nostro momento difficile il rapporto con Craxi è assai problematico. Se gli dai un dito, ti mangia la mano. Se gli dai la mano, tutto il braccio. Se gli dai il braccio, ti ingoia tutto intero”. Il Psi avanzò la proposta dell’unità socialista in termini troppo perentori, aggressivi, annessionistici. Come se il corpaccione comunista ormai senza testa, fosse destinato semplicemente a collocarsi sotto le insegne vittoriose dei socialisti. Ma le cose andarono in modo, come sappiamo, molto più complesso. Anche con tutto il vantaggio che il Psi si era riconquistato, non superò mai il tetto del 14% nelle elezioni politiche.

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Nel frattempo, la competizione e lo scontro con la Dc, nel recinto del preambolo, durante tutti gli anni Ottanta, il capo socialista fu “costretto” a praticarla innanzitutto sul potere, il denaro, il controllo delle leve dello Stato, dell’economia, delle aziende private e pubbliche, dell’informazione. Fu uno scontro durissimo; durante il quale crebbe anche una classe dirigente “craxiana” di qualità, creativa e competente. Da De Michelis a molti altri. Penso alla figura decisiva e di grande talento di Claudio Martelli. Così come, ovviamente, emersero personaggi ambigui, improvvisati, intriganti e interessati.

Tutto doveva arrivare al capo; che tutto conosceva e tutto predisponeva. Questo eccesso di carico su una sola persona sovraespose il leader socialista, rendendolo alla fine bersaglio degli avversari e dei magistrati. Lo logorò; perché ho sempre pensato diversamente da Andreotti, che il potere si consuma se esercitato troppo direttamente. C’è a proposito una riflessione del filosofo Byung-Chul Han che dice: “Spesso ciò che è assente ha più potere di ciò che è presente. Il potere non può che essere tradotto in un rapporto lineare tra chi comanda e chi subisce [… ] Non si racchiude nel binomio stretto tra azione e reazione; piuttosto crea uno “spazio” che imprime una direzione ed un senso”.

Attorno a Craxi, al contrario, si creò uno spazio intossicato. Di adulatori e approfittatori. Davvero pochi erano i suoi veri amici. Le persone di cui si poteva veramente fidare. Esigua era la rete di intermediazione che poteva e voleva proteggerlo e salvarlo. Canetti, in “Massa e potere”, parla delle “spine” del comando. Ogni ordine gerarchico lascia una “spina” nel corpo di chi lo subisce. La così rapida caduta del leader socialista, l’uomo più potente e temuto, è dovuta alle spine che aveva lasciato in chi gli era stato subalterno. Alla fine, dovette affrontare da solo la tempesta. E poi l’esilio, in Tunisia. E lì, Craxi fu nudo di fronte alla vita.

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La storia della tempesta giudiziaria che lo travolse è nota. Da un episodio apparentemente marginale che coinvolgeva un amministratore socialista, Mario Chiesa, vennero a galla malversazioni e ruberie che portarono presto ai vertici del Psi. Craxi, a quel punto in Parlamento nel luglio del 1992, svolse un discorso drammatico: fece una chiama di correo per tutti i partiti. Disse: “Se i finanziamenti illeciti sono un crimine, tutto il sistema politico è criminale”. Colse un nucleo di verità. Ma fuori tempo massimo, perché esplicitato per allontanare le accuse che in quel momento gli piovevano sulla testa. Ma il Pds rispose in modo “povero” e opportunista: no, noi siamo i “buoni” e voi i “cattivi”. Intravide la possibilità di accelerare un ricambio politico. Sappiamo che non gli andò bene e nel 1994 stravinse Berlusconi. Noi post-comunisti dovevamo rispondere diversamente.

Secondo me, così: “In generale non abbiamo cercato arricchimenti personali, non abbiamo gestito un sistema pervasivo e stabile di finanziamenti illeciti, i nostri dirigenti non vivono nel lusso e non promuovono futile mondanità. Ma, sì, anche noi siamo pienamente parte di un sistema a politico istituzionale arrivato alla frutta. Perché gestiamo insieme agli altri partiti la sanità pubblica. Perché il sindacato all’interno delle grandi aziende di Stato decide parte delle assunzioni; perché il 30% del mercato degli appalti nell’edilizia è destinato alle cooperative”. Potrei continuare. Dovevamo affrontare le inchieste della magistratura come l’occasione di un ripensamento generale di tutto il funzionamento della democrazia italiana. Non fummo all’altezza. Così i magistrati via via si sostituirono alla politica. Essi in Italia hanno goduto di un prestigio particolare. Nella guerra tra lo Stato e le mafie erano caduti uomini esemplari ed eroici. Falcone, Borsellino e tanti altri servitori della Repubblica.

Questo diede immediatamente un enorme consenso all’inchiesta di “Mani pulite”. L’esercizio della giustizia apparve lo strumento per rinnovare e cambiare l’Italia. E fu un male. Determinò l’intreccio perverso tra una politica impaurita, assente, e la magistratura caricata di un compito storico che non le competeva. Al di là delle singole responsabilità, quando i poteri perdono la capacità di un reciproco contenimento, dilagano manifestazioni patologiche. Ed è stato così. Le procedure, le garanzie, la specificità delle responsabilità dei singoli furono messe in ombra rispetto all’urgenza di rafforzare, corroborare, convalidare la necessità di un rinnovamento della nazione, corrosa dalla corruzione. Furono indispensabili simboli da sacrificare. Fu posta l’ascia alla radice dell’albero di tutta la Repubblica.

In questo caso, parafrasando le parole di uno dei più grandi giuristi italiani, Luigi Ferrajoli, ci si deve domandare se il processo a Craxi fu “giusto”. Ci fu la consapevolezza del carattere sempre “terribile” e “odioso” del potere giudiziario, secondo la definizione di Montesquieu? Si è avuta “la consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale”? Si esercitò “il rispetto del valore del dubbio e la consapevolezza della permanente possibilità dell’errore in fatto e in diritto”? Si coltivò “la disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni e l’indifferente ricerca del vero”? Ci fu “la comprensione equitativa della singolarità di ciascun caso”? Non sono, invece, prevalsi polveroni, le generalizzazioni, gli incitamenti di piazza che hanno tolto umanità e misura all’impianto accusatorio, intendendo l’imputato come un avversario? Ci fu “il rispetto di tutte le parti in causa”? Fu realizzata “la capacità di suscitare la fiducia delle parti anche degli imputati”? O invece gli imputati dimostrarono di aver paura, persino terrore dell’azione giudiziaria? Si conservò “il valore della riservatezza del magistrato riguardo i processi di cui era titolare”? Si evitò “il populismo giudiziario, che diventa intollerabile allorquando serve da trampolino per carriere politiche”? Gherardo Colombo, del pool di Milano, in seguito confessò: “Il lancio di monetine a Craxi, davanti all’Hotel Raphael, mi disturba ancora”.

Sarà perché sono cresciuto con mio padre, avvocato penalista: mi insegnava che la condizione dell’imputato, tranne non sia protetto o difeso da un’organizzazione criminale, è sempre esposta e debole. Sta esposto e debole di fronte al giudice che concentra in sé tutta la forza dello Stato. Sono bellissime le immagini di Chaplin mentre si avvia al patibolo in “Monsieur Verdoux”. La società ha deciso di giustiziarlo. Tuttavia, egli si domanda: “In fondo ho ucciso solo qualche vecchietta e vengo messo a morte proprio da coloro che con le bome, i cannoni e le mitragliatrici compiono stragi di massa”. Negli ultimi anni ho ripensato alla particolarità della vita di Craxi.

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È stato raccontato come una volta si sia fermato a posare dei fiori su una tomba di un caduto fascista. E come egli abiurasse la violenza. E poi il tentativo disperato di salvare Moro. E le sue lacrime di fronte ad una lettera dello statista democristiano che implorava di muoversi per cercare di salvarlo. Ore drammatiche nelle quali lottavano corpo a corpo le ragioni politiche e di Stato e quelle della umana pietà, che richiamano il mistero dell’infinito e del “nulla” contro la forza della storia. Craxi ha vissuto un sentimento di integrale umanesimo socialista e liberale. Pensato generalmente come un totus politicus, calcolatore spietato, sembra a me essere stato attraversato da vuoti e sconnessioni interiori, che tentò di reprimere in un affannoso, costante rilancio politico. Le crepe si avvertirono e segnarono l’amarezza del suo addio. Addolcite dalla sua famiglia. Da suo figlio Bobo, per cui nutro amicizia, fedele ai suoi ideali socialisti che difende con intelligenza, cultura e pacatezza.

Oggi siamo di fronte a scenari post umani. Alla negazione della libertà dello spirito, alla “cosizzazione” del mondo. Si può rimettere in campo uno sforzo critico, non ideologico, ma unitario e in grado di pensare una vita autentica? Si possono mettere insieme le verità del pensiero socialista e la forza, la cultura e l’integrità del popolo un tempo comunista e le speranze del pensiero cristiano più avanzato per riprendere un cammino? Penso di sì. Con tutte le difficoltà che conosciamo. Ma è lo stesso destino della nostra specie ad imporre questa ricerca e questo tentativo. A noi spetta tentare, e ancora tentare. Perché, anche nella pratica del tentare, c’è il senso di una vita più ricca, fiduciosa e legata alla terra. C’è la vita che vuole la vita.

19 Gennaio 2025

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