Il caso del 19enne
Morte di Ramy, giornalisti e politici si schierano coi carabinieri
Grande esultanza invece per la denuncia contro 16 ragazzi stranieri che avevano gridato: “Italia vaffanculo”. Denunciati per vilipendio
Cronaca - di Piero Sansonetti
Ieri sera gli amici di Ramy sono scesi in piazza di nuovo, a Milano, per chiedere giustizia per il ragazzo di origini egiziane ucciso dai carabinieri alla fine di un folle inseguimento per le strade della periferia milanese. Speriamo che il questore si sia assicurato che il servizio di ordine pubblico sia stato affidato esclusivamente alla polizia.
L’inseguimento di Ramy, che ha coperto oltre otto chilometri, e quindi è durato diversi minuti, e si è concluso con lo schianto dello scooter guidato da un amico di Ramy speronato dalla gazzella dei carabinieri, non ha suscitato particolare sdegno nel mondo politico e sui giornali. La morte di un ragazzo di 19 anni per mano dello Stato è scivolata via come l’acqua sul cemento. Eppure è un fatto di gravità assoluta, del quale dovrebbe rispondere il vertice dei carabinieri, il ministro della Difesa e anche la presidente del Consiglio. Non sto dicendo, per carità, che dovrebbero risponderne penalmente. Quello è un altro discorso, che riguarda i giudici, e io spero che agli imputati, cioè ai carabinieri, saranno assicurate tutte le garanzie possibili e immaginabili. Così come spero che saranno garantite all’amico di Ramy, sopravvissuto all’impatto, e che ora è imputato anche lui per non essersi fermato all’alt. No, non di responsabilità penali, parlo, ma di responsabilità politiche.
- Ramy Elgaml, il padre Yehia: “Quei carabinieri con un cane a terra si sarebbero fermati, non possono avere figli”
- Ramy Elgaml, il video dell’inseguimento a Milano in cui è morto il 19enne: “Caduti? Bene”
- Morte Ramy Elgaml, interrogato l’amico che guidava lo scooter: “Nessun alt, ricordo urto coi carabinieri nell’inseguimento”
- Così i carabinieri hanno ucciso Ramy (e mentito…)
Il filmato che documenta il comportamento illegale dei carabinieri è stato diffuso 48 ore fa. Ieri Giorgia Meloni è stata impegnata in una conferenza stampa, durata tre ore, durante la quale ha dovuto rispondere a una quarantina di domande dei giornalisti politici. Beh, voi non ci crederete, ma nessun giornalista ha rivolto alla premier una domanda piccola piccola sul delitto commesso dai carabinieri. Giusto un vago accenno di Daniela Preziosi, giornalista del Domani, al quale però Meloni non ha risposto. Siccome ho vissuto qualche anno in America, ho immaginato cosa sarebbe successo in una conferenza stampa con i giornalisti americani. L’iradiddio sarebbe successa. Il conferenziere sarebbe stato messo sulla graticola. Non è un lamento, credetemi, è la semplice constatazione dello stato comatoso nel quale si trova il giornalismo italiano.
Perché io lo so benissimo che la mancanza di domande su Ramy non è dovuta solo alla subalternità alla premier di gran parte dei giornalisti, cioè di tutti quelli che lavorano per giornali di destra. È dovuto anche a insensibilità. Il giornalismo politico italiano considera assai più importante la questione dei rapporti forse non idilliaci tra Giorgia e Matteo, che l’uccisione di un ragazzino di 19 anni, il quale dopo essere stato ucciso è stato anche “infangato” dal sistema dei mass media (per non parlare dei social, che comunque sono sempre ispirati e istigati da giornali e tv). Del resto è questo il motivo che rende così forte, oggi, Giorgia Meloni. La debolezza dell’opposizione politica, che riesce ad esprimersi solo con vecchi slogan, il servilismo di gran parte della stampa, e l’assenza di una vera e forte stampa di opposizione.
La cosa davvero curiosa è che l’unica personalità che davvero è intervenuta per condannare l’esecuzione di Ramy Elgamal, è stato l’ex capo della polizia. Parlo di Franco Gabrielli, che ieri ha rilasciato una dichiarazione nella quale condanna il comportamento dei carabinieri che hanno inseguito Ramy, e le frasi che si scambiavano tra loro (“Vaffanculo, non è caduto!”, “Dai, chiudilo!”, “Merda non è caduto neanche stavolta”…). Gabrielli ha spiegato che mai un inseguimento deve mettere in discussione l’incolumità dell’inseguito, e che questa è una regola che non può essere violata. Tanto di cappello al coraggio di Gabrielli, che si è sottratto al coro. Poi bisogna anche tenere conto del fatto che gli inseguiti, a differenza di quello che hanno scritto i giornali nei giorni scorsi, non avevano commesso proprio nessun reato. L’unica colpa del conducente della moto, che ha avuto paura dei carabinieri e ha deciso di fuggire, era quella di non possedere il patentino. Era il caso di speronarlo e farlo sbattere ad alta velocità contro un muro?
Il governo però, silenzioso su Ramy, non si è lasciato sfuggire l’occasione per gloriare le forze di polizia che sono riuscite a identificare almeno 16 dei ragazzi stranieri che la sera di Capodanno hanno gridato frasi contro l’Italia in piazza Duomo, sempre a Milano. Il reato di vilipendio contro il paese (…la nazione) e contro le forze armate è stato considerato gravissimo. Sono stati denunciati. Ora la magistratura dovrà avviare un processo contro di loro. Rischiano una condanna e l’espulsione. L’indignazione contro questi ragazzi ha raggiunto il diapason. Vi rendete conto? Un putiferio perché avevano gridato “Italia vaffanculo”. Chissà quante volte la stessa frase, magari in lingua straniera, è stata gridata da tifosi francesi, o inglesi, o tedeschi o olandesi, in trasferta nella nostra città. Ma per i ragazzi stranieri che vivono da noi pugno duro. L’articolo del codice penale contestato è il 290, “vilipendio alla nazione e alle forze armate”. Cioè ai carabinieri.
C’è un precedente illustre di contestazione di questo articolo del C.P. Illustre ma molto antico. Eravamo nel 1965. Fu denunciato don Milani dai cappellani militari che erano furiosi perché lui aveva difeso l’obiezione di coscienza al servizio militare. Sapete chi era don Lorenzo Milani? Il prete di Barbiana. Ne abbiamo parlato su questo giornale un po’ più di un anno fa. Intervenne, ad esaltarne la figura, persino il ministro della Difesa, Guido Crosetto. (Chissà che ne pensa Crosetto dell’incriminazione dei ragazzi di Capodanno). Il processo a don Milani durò due anni. In primo grado fu assolto. In secondo grado fu condannato, insieme al direttore di Rinascita, Luca Pavolini. A Milani la pena fu condonata perché nel frattempo era morto. Pavolini si beccò cinque mesi. Acqua passata? Beh, no: vedete bene che siamo sempre lì.