Domani sera il Derby
Io, queer del calcio, tifo sia Roma che Lazio
“Confesso di essere l’unico romano che tifa per entrambe le squadre!”. La crescita in una famiglia laziale prima e poi l’innamoramento per la seconda squadra portando allo stadio il figlio
Sport - di Filippo La Porta
Approfitto di questo giornale per fare outing sul mio tifo calcistico queer. Ebbene sì, confesso di essere – credo – l’unico romano a tifare Roma e Lazio! Dunque, vorrei precisarlo, non mi sento propriamente un pentito né un odioso transfuga, ma un tifoso diviso, limpidamente queer.
Subito un po’ di auto – schizo – biografia di un laziale dall’anima spezzata in due. Famiglia borghese e parolina, interamente laziale, plagiata dal nonno fascistissimo e lazialissimo, coinvolto in gioventù nella fondazione stessa del primo club della capitale, nel 1900, lo stesso anno delle prime Olimpiadi moderne, in Grecia, e anche anno di nascita di Ignazio Silone, immenso scrittore ingiustamente accusato di essere una spia (e che al tema del tradimento dedicò pagine altissime). A scuola mi dichiaravo blandamente laziale, dunque sempre in minoranza e inesorabilmente dalla parte del torto (a Roma se uno si comportava male veniva apostrofato: “Dai, nun fa’ er laziale!”). A voler fare della sociologia spicciola, alla Lazio appartenevano da un lato i “burini”, i contadini dei Castelli che venivano allo stadio con panino alla porchetta e damigiana di vino, e dall’altro la nobiltà nera e l’alta borghesia, mentre romanista era la plebe, il popolo degli artigiani testaccini e trasteverini, e la informe piccola borghesia impiegatizia.
Quando diventai di sinistra, al ginnasio, un po’ mi vergognavo del mio tifo. Mi confortò apprendere, tra l’altro, che era lazialissimo Luca Pavolini, direttore de l’Unità, che spesso leggevo, un comunista colto e raffinato. Inoltre, interpretai come un segnale augurale la coincidenza del primo scudetto laziale con la vittoria nel referendum sul divorzio, il 12 maggio 1974. Per inciso, ricordo che i festeggiamenti per lo scudetto furono straordinariamente civili e misurati. Più tardi diventai un laziale “de sinistra”: andavo allo stadio con un gruppetto di compagni di Lotta Continua, tra cui Marino Sinibaldi, e almeno una volta con Sandro Portelli, americanista ricco di umori, militante “natoliano” del Manifesto e ultrà laziale nel cuore (di lui ricordo un ritorno in autobus dallo stadio, dopo una sconfitta della Lazio, raccontato sul Manifesto, da recuperare in qualsiasi futura antologia blues del giornalismo italiano).
Ho sempre avversato la fuorviante equazione laziale = fascista. Come osservò un grande tifoso laziale, il mitologico avvocato Paolo Marini – che faceva parte del nostro gruppetto – non si è fascisti in quanto laziali, piuttosto “un laziale diventa fascista in quanto sfigato”: si sente appunto discriminato, perseguitato, dileggiato, ma a quel punto vuole stare orgogliosamente dalla parte del torto fino in fondo, per dispetto e impuntatura. Tutto cambia quando nasce mio figlio, nel 1990. Scuola-calcio a Testaccio, dunque fatalmente romanista. Con la tessera che mi prestava il caro e compianto Corrado Sannucci (uno dei più acuti giornalisti sportivi di questo paese, dotato di umorismo irresistibile e gusto dell’affabulazione, tifoso romanista) andavo con mio figlio a vedere la Roma allo stadio.
Ora, io credo che in ogni essere umano abitino fortissimi istinti gregari. Mettetemi in una curva di ultrà turbolenti e dopo un po’ mi ritrovo a gridare i loro slogan! Ne parlò lo scrittore americano Bill Buford nel suo bellissimo I furiosi del calcio (Among the thugs, 1990). Incuriosito dal mondo degli hooligans si mise a seguire le partite del Manchester United, e, una volta accolto nel gruppo – peraltro razzista e xenofobo -, ne rimase sedotto: si ritrovò a condividerne l’eccitazione dionisiaca, lo spirito cameratesco e l’euforia distruttiva (penso anche ai Furiosi di Nanni Balestrini, del 1994, sulle brigate rossonere del Milan, reportage epico-picaresco sui tifosi violenti visti non solo come teppisti ma come eroi post-omerici). Forse, a proposito degli istinti gregari della massa – un fenomeno all’origine dei grandi totalitarismi del 900 – la testimonianza più memorabile resta quella di Sant’Agostino, raccontata nel VIII Libro delle Confessioni, e ha come protagonista Alipio, amico intimo dell’autore, e in seguito anche lui vescovo. Prima Alipio era disgustato dai giochi gladiatori, ma un giorno fu trascinato dagli amici al Colosseo. Cosa accadde? “Alipio non distolse lo sguardo dai combattimenti, anzi ve li fissò; respirava furore senza accorgersene, prendeva gusto a quella lotta criminale, ebbro di sanguinario piacere. Che più? Guardò, gridò, si entusiasmò e se ne venne via in preda a una febbre che lo spinse a tornarvi”. Probabilmente allo stesso Agostino capitò un’esperienza del genere.
E finalmente arriviamo all’evento culminante, quello che è stato per me il Colosseo per Alipio. Il 17 giugno 2001 entrai all’Olimpico (Tribuna Monte Mario) con mio figlio, sempre usando il tesserino di Sannucci, a vedere Roma-Parma, l’ultima partita di quel campionato che consacrò il secondo scudetto alla Roma. A fine partita (vinta dalla Roma per 3 a 1), con l’invasione di campo in corso mi sorpresi a cantare con mio figlio “Grazie Roma”, sentendomi un traditore, una figura del nicodemismo. Nel Vangelo di Giovanni si racconta di Nicodemo che di notte ascoltava Gesù ma di giorno era devoto al farisaismo. “Nicodemiti” furono chiamati da Giovanni Calvino i protestanti che si professavano cattolici per paura delle persecuzioni.
Una variante del nicodemismo fu il fenomeno dei marrani nella Spagna quattrocentesca dell’Inquisizione: marrani erano infatti quegli ebrei che si convertivano al cattolicesimo – per opportunismo o necessità – ma che dentro di sé restavano fedeli all’ebraismo. Eppure, in quell’occasione il mio nicodemismo fu vittima di una nemesi. Volli cantare “Grazie Roma” per complicità con mio figlio, il quale però in seguitò mi rimproverò – paradossalmente – il tradimento della mia fede calcistica laziale! Alla mia umidiccia fluidità genitoriale contrapponeva una severa etica integralista.
Torniamo al tifo queer, privo di specifica identità, cui prima accennavo. Il mio doppio tifo – un assoluto nonsenso calcistico, una evidente perversione per qualsiasi tifoso – potrebbe essere visto in una luce diversa. Lì dove il nicodemismo si converte in utopia e la rivalità fratricida si schiude in una nuova fratellanza. In che senso? Oggi mi ritrovo a tifare entrambe le squadre: se una di loro perde ciò un poco mi rattrista. Non godo più di una sconfitta, come facevo nell’adolescenza. Insomma possiedo un amore (calcistico) senza odio! Vi pare poco? La mia passione per il calcio si è emancipata dallo schema amico-nemico, caro ai nazisti e qualche politologo marxista (o meglio il “nemico” potrebbe ritrovarlo fuori dalla polis, ad esempio nel sussiego padronale della Juve, ma questa è un’altra storia).