La riforma costituzionale
Riforma del premierato, quali sono i poteri del presidente del Consiglio
Ad essere spianato è il Parlamento. Alle Camere resta un passaggio fondamentale: il premier sarà pure direttamente eletto ma il governo può nascere solo con la fiducia del Parlamento
Politica - di David Romoli
Per Gasparri “tutti i nodi sono sciolti”. La ministra Casellati, più prudente, non va oltre un pur roseo “Siamo a buon punto”. Comunque i tempi sono confermati, il percorso fissato: oggi una nuova riunione ristretta, poi il testo della riforma costituzionale sul premierato, riveduto e corretto passerà ai leader della maggioranza e il 5 febbraio, come da agenda, gli emendamenti della maggioranza, cioè il testo finale della proposta, saranno depositati. Cosa cambia?
Quali sono i nodi che secondo Gasparri sono stati sciolti, e come? Col premio di maggioranza, che nel testo iniziale portava i vincitori fino al 55% e senza una soglia per accedervi, il vertice del centrodestra riunito ieri per il secondo giorno al Senato ha usato il metodo nodo di Gordio. Ha cancellato tutto e demandato alla legge elettorale, senza citare l’obbligo del premio “almeno sino alla maggioranza assoluta” come chiedeva l’emendamento di FdI.
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Il ragionamento è che tanto a decidere sarà, in Parlamento, la maggioranza stessa dunque tanto vale non rompersi la testa adesso e tenere le dita ben intrecciate pregando che nella maggioranza non si creino screzi tali da rimettere tutto in ballo.
Trattandosi di legge elettorale, cioè di quanto di più importante c’è per i partiti dal momento che ne va della loro sorte, non è affatto escluso. Peccato che in questo modo si spalanchino i cancelli agli agguati dei franchi tiratori che non faticheranno affatto a sfiduciare il premier eletto certi di non dover pagare il prezzo dello scioglimento delle Camere.
Sul secondo punto critico, il limite dei mandati, la logica è stata la stessa, in questo caso però, per quanto assurdo sembri, la palla avvelenata è stata affidata all’opposizione: facessero loro.
Nel testo originale a un tetto non si faceva proprio cenno, il premierato a vita era permesso se non previsto. L’emendamento tricolore mitigava: il tetto c’era, di due mandati, come per sindaci e governatori, ma con un espediente per aggirarlo.
In caso di scioglimento anticipato delle Camere nella seconda legislatura il premier poteva ricandidarsi per la terza volta. Il limite arrivava così a un massimo di 14 anni e non è che fosse proprio poco. La Lega si è messa di mezzo con l’obiettivo di cancellare il tetto e poi impugnare quell’assenza per reclamare lo stesso trattamento anche per i governatori e i sindaci, cioè, in concreto per Zaia in Veneto.
Causa l’impasse è spuntata un’idea geniale: “Tanto in materia l’opposizione presenterà comunque un emendamento: vediamo quello e casomai interveniamo a quel punto”. Ottimo e abbondante se non fosse che, per quanto si demandi la faccenda all’opposizione, il nodo resta irrisolto e prima o poi la maggioranza dovrà decidersi a decidere. Sempre che nel vertice di oggi non emerga l’assurdità della scappatoia.
Il punto più critico, si sa, è la norma antiribaltone, quella che nel primo testo consentiva un cambio di premier, uno solo per legislatura, purché il successore dell’eletto provenisse dalla stessa maggioranza del predecessore decaduto.
Su questo punto la maggioranza ha incrociato davvero le lame, i decibel si sono alzati di molto, le urla, martedì, sono arrivate forti e chiare all’orecchio dei cronisti in attesa dietro le porte. FdI voleva rimetterci le mani di brutta: tutto bene se il premier decade per morte o malattia ma se viene sfiduciato no, in quel caso si torna alle urne senza scappatoie.
La Lega si è imbufalita perché in questo modo il potere di ricatto del premier sulle Camere, minacciate di sfratto, diventava assoluto. Senza contare il particolare che la vera norma che ghigliottinava i poteri del capo dello Stato, oltre a quelli del Parlamento, era questa. Soluzione salomonica: il secondo premier entrerà certamente in scena in caso di morte, impedimento oggettivo o dimissioni volontarie.
Se a sfiduciare apertamente il premier , con apposita mozione, sarà il Parlamento le Camere verranno automaticamente sciolte. Se invece sarà il governo a porre la fiducia su un provvedimento e non prenderla si considererà il fattaccio un incidente, sia pur grave e il premier eletto potrà essere sostituito, una sola volta, da altro esponente della maggioranza.
Il nuovo testo, salvo modifiche ulteriori in extremis, è certamente diverso da quello originale in alcuni snodi decisivi ma mantiene la stessa impostazione di fondo: il potere si concentra nelle mani dell’esecutivo, il contrappeso, è il presidente della Repubblica, i cui poteri sono molto ridimensionati ma non del tutto cancellati.
A essere spianato è in compenso il Parlamento, che già oggi è stato spogliato della sua presunta centralità di fatto ma per cui questa riforma darà il colpo di grazia. In realtà alle Camere resta un passaggio fondamentale: il premier sarà pure direttamente eletto ma il governo può nascere solo con la fiducia del Parlamento. In questo modo però, le fonti di legittimazione diventano due, gli elettori e il Parlamento.
Tutto bene finché concordano, tutto male, anzi malissimo, se dovessero invece entrare in conflitto. Ma nel complesso la riforma ha un suo equilibrio: ma di democrazia parlamentare non si potrà più parlare e per certi versi neppure di democrazia presidenziale, con tutti i correttivi e i contrappesi che quel modello implica ad esempio negli Usa. Sarà, sempre che la riforma passi al referendum un modello diverso: la democrazia plebiscitaria.