Intervista al regista palestinese
Parla Rashid Masharawi: “Israele può uccidere i palestinesi, ma non distruggerà mai la Palestina”
Nella nuova pellicola passata al Medfilm Festival e nel progetto collettivo “From Ground Zero” il cineasta racconta la sua terra devastata dalla guerra. “Tentano di cacciarci da 76 anni, basta con le bugie dell’autodifesa”
Spettacoli - di Chiara Nicoletti
È nato a Gaza ed è stato tra i primi palestinesi a girare film nei territori occupati. Rashid Masharawi, classe 1962, ha anche un altro primato: ha diretto il primo film palestinese in selezione a Cannes nel 1996, Haifa. A Roma, al Medfilm, Festival del cinema mediterraneo, dove aveva vinto il concorso nel 2008 con Il Compleanno di Layla, Masharawi è tornato con Passing Dreams, sua ultima opera, un road movie su un dodicenne palestinese alla ricerca del suo sfuggente piccione viaggiatore disperso nei territori palestinesi. Un viaggio che lo porta dal campo profughi dove vive al muro di separazione ad Haifa.
Rashid Masharawi ha anche presentato al Medfilm e porterà al Torino Film Festival in questi giorni, un progetto da lui avviato e supervisionato, From Ground Zero, una raccolta di cortometraggi diretta da 22 filmmaker di Gaza, in risposta agli eventi seguiti agli attacchi del 7 ottobre 2023. Il film in Italia è distribuito da Revolver ed è il candidato all’Oscar in rappresentanza della Palestina. Abbiamo raggiunto il regista per un’intervista su questi suoi progetti e sul futuro del suo paese.
Come nasce l’idea di Passing Dreams?
Il progetto per me è iniziato tre anni fa quando ho avuto questa idea di fare un road movie che fosse all’interno della Palestina in modo da poter combinare le immagini di questi bellissimi panorami che abbiamo, delle città storiche con tutta la realtà della vita dei palestinesi nel West Bank: i check point e l’occupazione. Per me era importante che fossero presenti nel film posti come Gerusalemme, Betlemme, Haifa, molto importanti per il popolo palestinese e che però ci fosse anche la tensione e lo stress che vivono i palestinesi ogni giorno. Tre anni fa dunque mi sono fatto questa domanda: come riesco a mettere tutto questo in una storia? Mi è venuta questa idea del piccione che è volato via perché per questa specie non contano i checkpoint, il muro, lui può volare sopra tutto questo. Da lì poi ho scritto la mia sceneggiatura ed è nato il film.
Il suo è un film pieno di speranza e ottimismo, una celebrazione di resilienza. Crede sia questo che c’è bisogno di vedere al cinema in questo momento?
Sì, io credo sia molto importante, addirittura forse necessario, mostrare dei film ottimisti che possano sia descrivere la vita reale ma anche aggiungere qualcosa in speranza. Sarebbe facile mostrare solo l’azione, nel senso di ciò che sta succedendo lì in Palestina: questo lo vediamo tutti i giorni nelle immagini che si vedono ai telegiornali. Nei telegiornali però, i palestinesi sembrano essere solo dei numeri: oggi sono morte 100 persone, 200, 150 e così via. In queste immagini che vengono trasmesse però, spariscono i nomi delle persone che sono morte e così spariscono anche i loro sogni, le loro speranze e i loro problemi, cosa speravano di fare nella loro vita. Queste sono persone, sono donne, figli, fratelli, zii e solo con questa immagine, perdiamo tutto il resto. Sembra quasi che ci vogliano far vedere che tutto è cominciato dal 7 ottobre ma ovviamente non è così, sono più di 76 anni che va avanti e per me questo film serviva anche per dimostrare che noi palestinesi siamo una società, abbiamo la nostra arte, il nostro cinema, la musica, la cultura e credo veramente che il cinema possa mostrare tutto questo al mondo.
Il fatto stesso che il film mostri come la vita di tutti i giorni dei palestinesi continui, nonostante ciò che gli accade intorno, potrebbe in negativo significare che ci si è abituati al dolore, alla distruzione, alla guerra?
Io non credo veramente che i palestinesi si siano abituati alla situazione e che sia diventata la normalità, nel senso che se fosse stato veramente così, allora Israele sarebbe riuscito in questi anni a ottenere il proprio scopo, che era quello di prendersi tutta la terra e fare in modo che all’interno di quella terra non ci fosse neanche più un palestinese. Questo era lo scopo ancor prima del ‘48 e in realtà a me sembra che sia proprio il contrario, in questi anni Israele non ha avuto successo, non è riuscito a creare il proprio Stato sicuro perché per avere uno Stato e fare in modo che questo Stato sia sicuro, dovrebbe avere delle frontiere prestabilite e delineate e dovrebbe essere riuscito a sviluppare una società normale e non militarizzata come adesso. In realtà non mi sono mai preoccupato dall’idea che potessero non esserci palestinesi che vivono in Palestina perché in realtà siamo lì, generazione dopo generazione e adesso è Israele che deve combattere per difendere la propria esistenza in Palestina. Loro possono ucciderci, ci uccidono, ci combattono, ma non riescono a distruggerci perché noi siamo lì, lavoriamo, ci sposiamo, facciamo figli, ci prendiamo cura degli alberi e delle piante, ovviamente abbiamo tantissime sfide da affrontare ma quello che voglio che passi e che noi non siamo vittime, siamo essere umani completi. I palestinesi vivono in Palestina e hanno vissuto in Palestina per tutta l’occupazione e se uno va lì e li guarda, vede le famiglie, i campi, gli alberi e anche le architetture stesse delle case in armonia con il resto del paesaggio. Se invece guardiamo alle colonie, che aspetto hanno, sono come dei campi circondati da recinzioni. I bambini vengono accompagnati a scuola con delle armi, se uno va lì salta agli occhi ed è evidente chi è che appartiene a quella terra e chi no. Il fatto stesso che noi continuiamo a vivere questa vita normale rappresenta un pericolo per Israele.
Quest’anno ha anche prodotto From Ground Zero, un’antologia di cortometraggi girati all’interno delle zone di guerra in Palestina. In una recente intervista ha detto che lo scopo del progetto era esporre “la bugia dell’autodifesa” con cui Israele giustifica la sua devastante campagna militare a Gaza. È così?
Sì questa è una delle molte cose che ho detto in quest’ultimo anno sul progetto ma non è solo questo il motivo per cui ho fatto From Ground Zero. In realtà, il primo motivo è che volevo che ci fosse una documentazione su quello che sta succedendo in questo periodo e il secondo era anche che volevo raccontare le storie non raccontate, non quello che passa sui telegiornali e quello che le persone sanno, ma le storie personali che altrimenti non verrebbero fuori. E questo era anche un modo per insegnare ai giovani cineasti a fare cinema come in una sorta di formazione e a parte questi motivi qui, certamente volevo mostrare il genocidio, il crimine e volevo farlo con il linguaggio dell’arte. Era importante per me che artisticamente e tecnicamente questi film fossero di un buon livello, alcuni erano di principianti con pochissimo equipaggiamento e tutta la postproduzione l’abbiamo dovuta fare all’estero ma in effetti, non ho immaginato e vissuto questo progetto con un intento politico, era piuttosto un’esperienza personale di provare a fare un film di questo genere.
Cosa significa per lei essere un regista palestinese oggi?
Crede che il suo ruolo e le sue responsabilità siano cambiate in questi anni? Sono consapevole come regista palestinese, da moltissimi anni, che a parte la guerra che sta succedendo ora, c’è un’altra guerra, quella sulle storie che vengono raccontate. Lo so da moltissimi anni, non solo da palestinese, e come persona nata a Gaza, ma proprio come essere umano. Se uno vede qualcosa e può fare qualcosa in merito e raccontare quello che vede, deve farlo. Il cinema è uno strumento importantissimo per poter scambiare immagini con il resto del mondo là fuori e questo è importante quindi non solo per i palestinesi e per Gaza ma per gli esseri umani in generale. Cosa potrei fare io? Guardare le immagini e piangere settimana dopo settimana? Invece esco e provo a fare qualcosa. Ed è quello che sto facendo e faccio da tantissimi anni.