Tensione sempre più alta tra alleati
Perché la frattura tra Forza Italia e Lega, a destra scoppia la rissa
Il portavoce azzurro spara contro i padani, poi la retromarcia. Ma la vera guerra è tra Tajani e Meloni: in gioco il posto di Fitto e i rapporti con il Ppe
Politica - di David Romoli
Al Senato, dopo le botte tra pezzi di maggioranza l’un contro l’altro armati, la fiducia sul dl Fiscale passa senza sforzo con 100 voti e non c’era mai stato dubbio. Tajani, artefice del voto che ha quasi spaccato in commissione Bilancio corre da una parte all’altra per spegnere ogni scintilla a rischio di trasformarsi in incendio: “Governiamo bene insieme. Non ci saranno problemi”. La premier, ricevuta con grande discrezione 24 ore prima al Quirinale aveva già provveduto a rassicurare il capo dello Stato, tenendo faticosamente a freno l’irritazione: nessun problema davvero allarmante.
Certo Tajani si era dimenticato di indottrinare a dovere il portavoce di Fi Raffaele Nevi, che in un’intervista si lascia scappare un contundente “Salvini fa un po’ il paraculetto quando usa l’argomento della pressione fiscale per giustificare il taglio del canone Rai. Si dia un po’ una calmata e torniamo a parlarci”. I leghisti in realtà sono tutto sommato calmi. Certo la risposta arriva ma non per bocca di Salvini bensì del senatore Iezzi. E non è la stessa cosa: “Fi fa bene a cercare di distinguersi. Ma non se lo fa fuori dal programma di governo come con la cittadinanza per i minori stranieri. Il Pd c’è già. Non serve un doppione”. Nel frattempo Nevi si affretta a correggere: “È la sinistra che mette zizzania. Il mio pensiero è stato travisato ad arte. Ci tengo a scusarmi”. Incidente chiuso. Avanti come se nulla fosse. Fa comodo a tutti fingere che non sia successo niente e fa altrettanto comodo, forse anche di più, travestire il fattaccio come la solita baruffa tra Lega e Fi, per una volta sfuggita al controllo. Cose che capitano e non lasciano traccia. Solo che è un doppio inganno. Primo perché l’incidente non è chiuso. Secondo perché la tensione reale, quella pericolosa, non è fra Tajani e Salvini ma fra Tajani e Meloni.
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Il capo azzurro è inviperito con la premier, non del tutto a torto. La ritiene un’ingrata, avendola lui salvata dal disastro europeo nel quale era finita in luglio. Che a gettare il salvagente a Giorgia sia stato il Ppe, anche su spinta di Tajani, è vero. Ma la manovra dei Popolari è più ampia e vede in campo direttamente il presidente del partito Weber e quella della Commissione von der Leyen. In secondo luogo il leader azzurro ce l’ha con Giorgia perché la premier risponde picche alla sua richiesta di pesare di più nel governo, essendo nel frattempo il suo partito passato dal ruolo della Cenerentola a quello della seconda forza della maggioranza. Richiesta concreta: il ministero lasciato vacante da Fitto affidato non a qualcuno scelto dalla premier, che punta a Elisabetta Belloni, ma all’ex capogruppo azzurro Alessandro Cattaneo.
C’è un terzo motivo di frizione forte tra i due. Il ministro degli Esteri sospetta l’alleata, anche in questo caso probabilmente non a torto, di stare brigando per attrarre nella propria area i Noi Moderati di Maurizio Lupi e proprio per questo avrebbe fatto balenare a Lupi l’ipotesi di una candidatura a sindaco di Milano. Tajani ha sempre considerato Noi Moderati un’appendice del suo partito ma il problema non è solo e forse non è soprattutto questo. È il dubbio che, attraverso Lupi, la premier stia cercando di aprire un ulteriore canale di comunicazione con il Ppe aggirando la mediazione del ministro degli Esteri.
Anche Giorgia ha i suoi motivi di irritazione. Nel vertice di domenica scorsa il capo di FI si era impegnato a non partecipare al voto sul canone Rai, evitando il voto contrario. Il voltafaccia ha reso Meloni furibonda ma la ha anche preoccupata ed esasperata perché, non per la prima volta, si trova costretta a fare i conti con il convitato di pietra della maggioranza, quel Piersilvio Berlusconi che oltretutto minaccia di scendere nell’arena politica in prima persona e sarebbe un bel guaio. Ma anche evitando l’ipotesi peggiore, l’idea di dover continuamente mediare con gli interessi di un’azienda che può manipolare a piacere un partito della maggioranza è in antitesi con la sua intera visione della politica.
C’è in ballo anche qualcosa di più strutturale, però. La competizione con una forza centrista, che a differenza della Lega, non gareggia suonando la stessa musica solo con tonalità più alte ma deve per forza smarcarsi e prendere le distanze su temi essenziali rende in prospettiva inevitabile il montare di uno scontro con il partito azzurro molto più insidioso di quello, per lo più mimato, con il Carroccio. Anche perché nei confronti di Fi Giorgia dispone solo di armi spuntate. Due sere fa, subito dopo la spaccatura della maggioranza al Senato, ha minacciato il ritorno alle urne. Finché si tratta di Salvini, che in caso di elezioni scivolerebbe nell’area dannata delle percentuali risibili e che non dispone di sponde al di fuori del centrodestra, la minaccia è reale. Ma con Fi, che in caso di rottura si proporrebbe come partito federatore della galassia centrista e probabilmente uscirebbe bene dalla prova elettorale invece non lo è affatto.