La passione del Nazareno
Così il Pd ha perso in Liguria da primo partito per colpa di Conte
Dietro l’amara parabola di Orlando c’è il crollo della partecipazione dal basso e un programma che si limita alla denuncia senza pensare alla proposta. Ma il punto è che senza alleati affidabili, per la sinistra non sarà facile avere la meglio sulla destra
Editoriali - di Michele Prospero
Capita di fallire a una elezione regionale, come è accaduto in Abruzzo o in Basilicata, ma non è possibile lasciarsi sfuggire la Liguria, soprattutto dopo la incauta rincorsa delle sirene del giustizialismo, con tutti i leader riversatisi nella piazza di Genova per chiedere il voto anticipato. Non è vera la storiella per cui domenica ha trionfato il vecchio “sistema” affaristico e pertanto agli sconfitti non rimane altro che la insaziabile recriminazione per l’abisso separante l’etica pubblica dal vizioso comportamento popolare.
Chi sostiene tale lettura moralistica subito si contraddice sparando sul candidato politico di professione “romano”, che sarebbe apparso impresentabile al cospetto di un raffinato profilo civico rivelatosi irresistibile nella cattura delle coscienze. Per motivare il tracollo del non-partito un tempo grillino vengono inventate delle spiegazioni alquanto fantasiose. Il preteso “civismo” del vincitore è stato infatti bocciato sonoramente proprio nella sua Genova e il buon esito gli è stato garantito solo dallo spirito virtuoso imperante nella Imperia di Scajola. Meglio allora cercare altrove le ragioni della batosta.
Alle europee del giugno scorso, la Liguria aveva attribuito alle forze di opposizione alla Meloni il 51,4 per cento (a cui è legittimo aggiungere il 3 per cento della lista pacifista di Santoro) e all’area di governo il 44,4. A erodere questa posizione di considerevole vantaggio è stata di sicuro la dichiarazione dell’ufficiale decesso del campo largo a pochissimi giorni dall’appuntamento chiave. L’ostracismo verso il nome di Renzi (3,7 per cento alle europee) ha assottigliato il margine a favore del centrosinistra, sicché ai nastri di partenza comparivano due blocchi di fatto equivalenti.
Le responsabilità della cocente disfatta sono condivise da più attori. La sinistra nel suo complesso, dinanzi al crollo della partecipazione (46 per cento), deve interrogarsi sull’assenza di qualsiasi mobilitazione dal basso, per giunta in condizioni di scontro campale caricato addirittura di significati rigenerativi generali. C’è una carenza di insediamento sociale che rende del tutto afona la politica nei territori, i quali non a caso restano indifferenti alle sollecitazioni provenienti dai banditori di una nuova emergenza morale. Non basta indicare cinque punti di un vasto programma di trasformazione (salario minimo, sanità, scuola, ecc.) per dare la sensazione di una incisiva capacità di radicamento nella credibile lotta ai disagi della tarda modernità.
Fare politica è altra cosa dalla semplice elencazione delle situazioni di allarme registrate dai sondaggi. Al fine di penetrare nel sentimento degli elettori occorre tramutare la denuncia in iniziativa costante nelle istituzioni e nella società. Tra le crêuze diverse erano le battaglie aperte. Conte, con fuochi di bengala, ha condotto una triplice scaramuccia. In primo luogo puntava il dito contro Grillo per sottrargli la sovranità sul simbolo e rimpicciolire il portafoglio dello showman; in seconda battuta mirava ad infilzare Renzi quale ospite sgradito e a complicare così la difficile regia coalizionale spettante al partito maggiore; da ultimo si prefiggeva di arginare la raggiunta supremazia del Pd nella guida dell’alternativa, non disdegnando scomuniche e sceneggiate con il rischio tangibile del tonfo nelle cabine.
In nessuna zuffa Conte ha realmente incontrato il conforto del risultato. Il comico fondatore ha disertato le urne e gioito per la figuraccia del movimento non più suo. Anche Renzi è autorizzato a rallegrarsi per la resa dell’armata che lo aveva appena maltrattato. Un parziale successo il fresco capo dei 5 Stelle l’ha incassato soltanto nella personale contesa con il Pd. La perdita della regione, che sembrava un’agevole casamatta disponibile alla conquista, indubbiamente spalanca una voragine dentro il Nazareno. La strategia sinora perseguita, una bipolarizzazione attorno alle due leader donne, ha rinvigorito i democratici, e però ha prosciugato il terreno degli alleati, che scommettono sullo scenario peggiore – in Umbria si assapora il già visto – per coltivare il disperato sogno della leadership.
Se Meloni può permettersi persino di cantare vittoria, pur avendo quasi dimezzato i suffragi della Fiamma, Schlein non ha nulla da festeggiare perché la impennata del consenso che ha gonfiato il Pd, raccogliendo solamente in parte gli orfani del centro, coincide con il naufragio annunciato dell’aspirante presidente. L’arte di costruire un fronte coeso e spendibile è il più arduo mestiere da apprendere. A legge elettorale invariata, senza partner da aggregare in uno schieramento plurale e unitario si prenota ad ogni occasione la solita burrasca.