I danni del qualunquismo
Così Giuseppe Conte ha affossato il Movimento 5 Stelle: dal 30 al 4 per cento in Liguria
Ha distrutto il suo partito. Ha imbrigliato il Pd costringendolo a scelte sbagliate. Sarà il caso di sospendere il “tafazzismo” della sinistra?
Editoriali - di Piero Sansonetti
Quando Conte prese la guida del movimento Cinque Stelle, prima al fianco di Di Maio e poi da solo, il movimento Cinque Stelle aveva in Liguria il 30 per cento dei voti. In Parlamento era il partito più grande, e disponeva di oltre un terzo dei seggi. Le cose poi non andarono benissimo.
In Parlamento, durante la guida Conte, i 5 Stelle hanno perso i tre quarti dei seggi che avevano (anche perché ne hanno voluto e imposto la riduzione), in Liguria sono appena sopra al 4 per cento. Dal 30 per cento al 4 è una discesa bella ripida. La perdita è stata di oltre l’ottanta per cento del proprio elettorato. Una cosa mai vista in politica. A nessun leader di partito era successa in passato una cosa del genere. Matteo Renzi nel 2018 subì una bella botta, scese dal 40 per cento che aveva preso alle europee al 20 per cento. Cioè dimezzò i voti. Batosta, sì, ma nemmeno paragonabile a quella di Conte. Tanto più che se per Renzi il confronto si fa sulle precedenti politiche (2013) e non sull’exploit irripetibile delle europee, il suo Pd scese solo dal 25 al 20 per cento, sconfitta pesante ma comunque nell’ordine della normalità. Renzi per quella sconfitta elettorale si dimise da segretario (come quattro anni dopo fece Letta, sebbene lui addirittura avesse migliorato, seppur di poco, la posizione del Pd). Conte invece se ne sta lì con l’aria del vincitore.
Ancora ieri, dopo l’umiliazione subita dalle urne, i suoi rilasciano dichiarazioni baldanzose. Naturalmente si può raccontare questa vicenda tenendola sul piano del folklore. Ridere un po’ giocando sull’unicità del partito di Conte, dove lo slogan “uno vale uno” si è trasformato in “uno, o anche molti, valgono zero”. Oppure si può prendere sul serio la cosa. E allora cercare di capire se esiste la possibilità che il Pd si liberi dalla sindrome di Stoccolma. Il Pd in Liguria ha preso quasi il 30 per cento dei voti, riportando una vittoria clamorosa, nel voto di lista, specialmente se messa vicino al tracollo di Fratelli d’Italia (che ha dimezzato i voti rispetto alle europee e alle politiche). Eppure è uscito sconfitto. Come si spiega in termini politici questa sconfitta? Semplicemente con la subalternità a Giuseppe Conte. Che l’ha trascinato su una linea politica pericolosa, su una scelta di alleati pericolosa, e poi lo ha ucciso con il proprio crollo. È difficile da capire l’ostinazione con la quale si continuano ad accettare i ricatti di Conte. Perché poi così stanno le cose: la questione è Conte, non è il suo partito.
Il Pd in Liguria ha sbagliato sin dall’inizio, per seguire i Cinque Stelle. Innanzitutto ha sbagliato a cavalcare l’inchiesta Toti, convinto ancora dell’idea grillina che accodandosi alle procure si ottengono sempre vantaggi. Non è così’. Il Pd, per non farsi scavalcare da Conte ha partecipato addirittura a una manifestazione contro Toti quando Toti era detenuto (fatto unico, credo, nella storia della lotta politica), cioè non è riuscito a scrollarsi di dosso la tentazione eterna del giustizialismo. Ha finito con l’adattarsi alla linea dettata da Travaglio e si è rovinato. Per fortuna, ormai, l’idea che basta far tintinnare delle manette per danneggiare seriamente uno schieramento politico, non funziona più. A quella parte di elettorato che ha deciso di andare a votare risultava del tutto evidente che la Procura di Genova aveva realizzato, su Toti, una operazione di attacco politico che ha avuto come risultato solo l’annientamento della persona fisica di Toti, ma non del suo schieramento.
E così si è creata una situazione nella quale la Regione si è trovata esattamente divisa in due, tra lo schieramento di destra, sostenuto soprattutto da Salvini, e quello di sinistra, radunato intorno al Pd. A quel punto, per vincere le elezioni sarebbe bastato accettare l’aiuto offerto da Matteo Renzi e dai radicali. Ma Conte non voleva e ha imposto al Pd di rinunciare a quei voti e quindi di perdere la sfida. Siccome però, forse, Conte non era sicuro di perdere, alla vigilia elettorale inventò un litigio con Grillo che gli assicurasse il volatilizzarsi di altre migliaia di voti.
Bene. Ora è tutto chiaro? Alcune alleanze non sono utili. Se il tuo alleato è privo di radici politiche, e oscilla tra la xenofobia stile Salvini e l’alleanza con la sinistra, e tra l’aumento delle spese militari e l’avvicinamento a posizioni pacifiste, se fa il gioco della Meloni nel Consiglio di amministrazione della rai, se sabota le tue alleanze, se concepisce la politica come una semplice esercizio di furbizie, non è un alleato da tenere in squadra. Perché è qualunquista, e il qualunquismo non fa bene alla sinistra. E perché non è affidabile. Il Pd riuscirà a ritrovarsi unito su questa posizione, e sarà capace di ripartire nella sua battaglia politica rinunciando a Conte?
Nella speranza, naturalmente, che questa sua posizione possa avere una influenza nel partito dei 5 Stelle, che ha al suo interno componenti autenticamente di sinistra, e lo spinga finalmente – come sarebbe del tutto logico – a liberarsi di Conte e a riprendere una battaglia che non sia più di fiancheggiamento della Meloni? Forse bisognerà aspettare la fine della tornata elettorale di autunno ( Emilia Romagna e Umbria) per capire cosa ha in testa il Pd. Il rischio però è che nel frattempo la vicinanza di Conte porti a nuove catastrofi elettorali. Incrociamo le dita.