Ironia, chiasso e urla in Aula
Che pena il solito teatrino della Meloni: si scaglia contro i migranti e loda le deportazioni in Albania
La premier sbeffeggia i diritti umani dei primi profughi trasferiti a Tirana e attacca le ong: “Vergognoso che difendono i trafficanti di uomini”
Politica - di David Romoli

Tra relazione introduttiva e repliche, al Senato prima e alla Camera poi, Giorgia Meloni parla molto e di molti argomenti, inclusa un incursione lampo però deflagrante nel capitolo legge di bilancio: “Sul contributo extraprofitti per le banche aspettate la legge di bilancio, potreste scoprire che abbiamo più coraggio di quanto ne abbia avuto la sinistra”). Ma tra i tanti argomenti due sono più stringenti degli altri, perché chiamano in causa non le prospettive di domani ma le scelte di oggi e direttamente solo l’Italia.
Il primo è l’accordo con l’Albania. Il Protocollo è “una strada nuova e coraggiosa”, riflette un nuovo approccio europeo “molto diverso da quello del passato grazie soprattutto all’impulso italiano. Siamo diventati un modello da seguire e ne sono orgogliosa”. L’opposizione la bersaglia, ma per lo più con le argomentazioni sbagliate. Non funzionerà. Costa troppo. Sarebbe stato molto meglio investire quei soldi in Sanità. Il capitolo diritti umani è solo sfiorato e a volte in modo goffo. Sonia Braga, ad esempio, parla di diritti umani già violati e la premier ha gioco facile nel fare un po’ di teatro: “Ma se i primi migranti arriveranno solo domani! Come fanno a essere già stati violati i loro diritti se ancora non ci sono?”.
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Giorgia ha in tasca carte vincenti. L’Europa la spalleggia con tanto di lettera entusiasta di Ursula von der Leyen che la destinataria della missiva non manca di sbandierare. Il governo laburista inglese applaude e imita. Il cancelliere socialdemocratico tedesco s’infiamma di passione. Come si fa a dubitare del Protocollo? In effetti lo si dovrebbe fare mettendo in discussione non, come da copione, la sovranista cattiva in contrasto con l’Europa ma la svolta dell’Europa che ha spostato tutti o quasi, spesso sinistra inclusa, sulla linea della premier italiana, cioè della destra europea. Cosa significhi lo rivela lo scontro su Sea Watch, che Meloni attacca direttamente per aver detto che la guardia costiera libica è come i trafficanti e anzi, per la verità, spesso guardiani e trafficanti sono la stessa cosa.
“È vergognoso che Sea Watch definisca la guardia costiera ‘i veri trafficanti di uomini’ e gli scafisti come innocenti”. “Lei fa la forte con i deboli e la debole con i forti. Ha fatto un attacco da bulla a Sea Watch. Alza la voce con loro, ma non alza la voce con Netanyahu”, è la replica in Aula alla Camera della segretaria del Pd, Elly Schlein. Che sul Medioriente aggiunge: “Noi chiediamo al governo di unirsi agli altri governi che chiedono l’embargo totale delle armi a Israele. Non solo le violazioni di Netanyahu violano il diritto internazionale, ma sono i peggiori nemici del popolo di Israele”. Di fronte alle critiche e alle proteste, alla richiesta del verde Bonelli di chiedere scusa alla Ong, non arretra di un centimetro. Non è solo sceneggiata: è un segnale. Non è la destra italiana ma l’Europa tutta che ha scelto senza più margini di esitazione la Fortezza Europa e dunque i lager senza guardare troppo per il sottile. Si trattasse pure dei torturatori della guardia libica.
Il secondo punto rovente per Giorgia è il voto imminente su Raffaele Fitto, vicepresidente esecutivo della Commissione europea. I socialisti in Europa non sono affatto convinti, hanno chiesto di spostare il voto su di lei per ultimo in modo da non dover subire rappresaglie ove si risolvessero a bocciarlo. Il Pd lo deve votare per forza ma molto obtorto collo e non si straccerebbe le vesti se i compagni di eurogruppo lo fucilassero. Giorgia martella e con un obiettivo preciso: il Pd, delegazione più folta nel gruppo socialista, deve convincere gli altri a sostenere Fitto. “Siete la delegazione più numerosao: fate votare Fitto dai socialisti”. La premier dapprima magnifica, esagerando di parecchio, il ruolo assegnato all’attuale ministro responsabile del Pnrr, poi incalza: “Fitto e il gruppo Ecr si espressero a favore di Gentiloni, Berlusconi chiese di partecipare a una commissione che non era la sua per poter intervenire a sostegno di Gentiloni”.
Un esercito di oratori le sventolerà davanti il volantino del 2019 in cui chiamava alla mobilitazione contro “l’inciucio” del M5s che permetteva il rientro dalla finestra proprio di Gentiloni ma lei resta imperturbabile e sfida Elly a rispondere sulle intenzioni del Pd. Non lo fa solo per propaganda. La teatralità c’è tutta ma in questo caso risponde a un interesse reale: Meloni ha paura che il suo candidato venga affossato. Ma Elly non raccoglie la sfida e glissa: “Ascolteremo le audizioni di tutti i commissari incluso Fitto. Ma non montate in cattedra a farci lezioni perché voi avete votato contro la commissione con Gentiloni commissario”. In effetti la premier si riferiva al voto sul commissario italiano e non a quello sulla commissione nella sua interezza ma tant’è.
Per il resto Meloni tenta l’affondo sul Green Deal: “L’approccio ideologico ha creato effetti disastrosi. La decarbonizzazione a prezzo della deindustrilizzazione è un suicidio. Non c’è nulla di verde in un deserto”. Incrocia la lama sul serio solo con il M5S. Rispondendo alla senatrice 5S Bevilacqua la premier si scatena: “Il giorno che mi faccio spiegare le cose da voi giuro che mi dimetto. La leggerezza con cui affrontate le crisi internazionali è pari solo a quella con cui affrontate i conti dello Stato. Ci vuole la maschera di ferro per accusare noi di gettare i soldi dalla finestra dopo aver fatto il Superbonus”. Ma Conte in questo casi non si perde d’animo e risponde urlando peggio che in un comizio anni ‘50. Sopra le righe ma efficace.