Gli accordi della vergogna
Accordi tra Giorgia Meloni e Edi Rama, il disegno oscuro dietro al patto tra Italia e Albania
Dalla detenzione illegittima alle espulsioni illegali, il Protocollo ribalta i principi del diritto europeo. Il vero obiettivo è sperimentare una gestione dei migranti fondata sul confinamento e sull’indebolimento radicale delle garanzie, in cui le regole vengono neutralizzate.
Editoriali - di Gianfranco Schiavone
Con probabilità entro fine settembre, con la conclusione dei lavori al centro di Gjader, il protocollo tra Italia e Albania ratificato con L. 21.02.24 n. 14 prenderà avvio dopo innumerevoli rinvii nella sua attuazione. Nelle due strutture di Shengjin e Gjader “possono essere condotte esclusivamente persone su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri stati membri dell’UE, anche a seguito di operazioni di soccorso” (art.3 c.2).
Le strutture per le procedure di ingresso “sono equiparate a quelle previste dall’art. 10-ter comma 1 del TU immigrazione” [gli hotspot] mentre la struttura per il rimpatrio “è equiparata ai centri [i CPR] previsti dall’art. 14 comma 1 del citato testo unico” (art.3 c.4). Il Protocollo è chiaro nel delimitare l’ingresso e la permanenza nel territorio albanese degli stranieri “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse. Nel caso venga meno, per qualsiasi causa, il titolo della permanenza nelle strutture, la Parte italiana trasferisce immediatamente i migranti fuori dal territorio albanese”.
Il presupposto di fondo su cui si basa la L.24/14 è l’asserita possibilità di applicare nelle aree soggette alla giurisdizione italiana ma ubicate nel territorio albanese, il diritto italiano e quello dell’Unione Europea sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri “in quanto compatibili” (art. 4 c.1). Il presupposto invocato è però quanto mai dubbio sia per ciò che attiene al diritto UE sull’asilo, sia per ciò che attiene al diritto UE in materia di rimpatri. Il diritto europeo sull’asilo trova infatti applicazione nel territorio degli Stati membri, nelle acque territoriali, nelle zone di transito e alle frontiere degli Stati membri. Nessuno dei testi normativi vigenti e neppure i nuovi regolamenti sull’asilo approvati dall’Unione a maggio, e in particolare il Regolamento (UE) 2024/1348 (che si applicherà da giugno 2026) sembrano consentire un’applicazione del diritto UE al di fuori del territorio degli Stati membri. Non deve trarre in inganno la cosiddetta “finzione giuridica di non ingresso”, ovvero il fatto che il richiedente asilo sottoposto alla procedura di frontiera non è autorizzato al soggiorno nel territorio mentre è pendente la procedura stessa, in quanto le strutture in cui i richiedenti sono collocati, sia che siano ubicati alla frontiera che altrove, si trovano comunque a tutti gli effetti nel territorio dello Stato.
Per poter esercitare il diritto d’asilo previsto dall’art. 10 della nostra Costituzione non è necessario che la persona sia già sul territorio o alla frontiera, e una norma ben potrebbe disciplinare le modalità per ricevere ed esaminare la domanda presentata da uno straniero che si trova al di fuori del territorio dello Stato. Tale possibilità non può tuttavia essere confusa con quanto previsto dal Protocollo con l’Albania, in quanto gli stranieri che vi saranno coinvolti non si trovano all’estero ma, recuperati in operazioni di soccorso in acque internazionali, verranno forzatamente portati non in Italia bensì in un altro Stato ad opera dalle stesse autorità italiane. Si verrà così a creare una irragionevole disparità di trattamento tra i richiedenti asilo salvati e portati in Italia e i richiedenti asilo salvati e portati in Albania. Ritengo si configuri così una discriminazione basata sulla condizione personale, vietata dall’art. 3 Cost, che sorge allorquando la legge “senza un ragionevole motivo” preveda un trattamento diverso tra coloro che si trovano in “eguali situazioni” (vedi già Sentenza Corte costituzionale n. 15 del 1960).
Potrebbero (forse) non esserci irragionevoli discriminazioni nel solo caso in cui l’intero sistema delle garanzie previste dal sistema europeo di asilo venga rispettato nei centri collocati in Albania. Così non è però; l’equiparazione della condizione tra chi si trova in Italia e chi si troverà in Albania è del tutto fittizia: chi verrà detenuto in Albania non potrà infatti esercitare in modo effettivo dei diritti tutelati dalle norme europee come il diritto di comunicare con organizzazioni che prestino assistenza legale, il diritto di consultare e nominare a sua scelta un avvocato o altro consulente legale. Tra i diritti che verranno compressi vi è anche l’impossibilità di sostenere l’audizione di persona con un giudice (essa è prevista solo in videoconferenza, opzione prevista in Italia soltanto in casi del tutto speciali o straordinari) indebolendo l’effettivo accesso al diritto alla difesa garantito dall’art. 24 Cost. e al giusto processo garantito dall’art. 111 Cost.
Il primo e più importante diritto del richiedente asilo che subisce una generalizzata compressione nella previsione della L. 14/24 è la libertà personale. Le disposizioni sono chiare sul punto: tutte le persone inviate in Albania e sottoposte alla procedura di frontiera dovranno essere rinchiuse durante tutto il tempo della procedura fino al termine massimo di quattro settimane previsto dalla legge. Non è prevista in alcun modo e in alcun caso l’applicazione di misure alternative alla detenzione. Ciò appare in radicale contrasto con il diritto dell’Unione sull’asilo che dispone che “i richiedenti possono essere trattenuti soltanto in circostanze eccezionali definite molto chiaramente nella presente direttiva e in base ai principi di necessità e proporzionalità per quanto riguarda sia le modalità che le finalità di tale trattenimento” (direttiva 2013/33/UEconsiderandon. 15). Il trattenimento infatti può essere adottato “sulla base di una valutazione caso per caso” (art. 8) e “solo dopo che tutte le misure non detentive alternative al trattenimento sono state debitamente prese in considerazione” (considerando n. 20). La norma europea esclude qualsiasi automatismo e prevede che l’amministrazione motivi in concreto, caso per caso, quali siano le ragioni per applicare nel caso concreto il trattenimento nonostante si tratti di una misura eccezionale, nel rispetto del principio di proporzionalità. È proprio in ragione della “assenza della dovuta motivazione sulla necessità del trattenimento, sulla sua proporzionalità e sull’impossibilità di fare ricorso alle altre misure alternative, di tipo coercitivo” (Trib. di Palermo 27.08.24 giudice Marino) che la gran parte dei provvedimenti questurili di trattenimento negli hotspot finora emanati correttamente non sono stati convalidati.
Il protocollo tra Italia ed Albania esclude del tutto l’esistenza di misure alternative al trattenimento. Non è infatti possibile che la procedura accelerata di frontiera venga realizzata in Albania senza il trattenimento che ne è parte inscindibile, così rovesciando completamente i fondamenti del diritto dell’Unione sulla materia. Faccia attenzione il lettore a ben comprendere il punto: non si tratta di evitare il trattenimento nelle situazioni che per legge vanno escluse, come i casi vulnerabili e i minori non accompagnati, bensì di rispettare il principio di diritto in base al quale va sempre effettuata una valutazione caso per caso sulla possibilità di applicare il trattenimento o altra misura meno coercitiva nei confronti dei richiedenti per i quali il trattenimento può, come ultima istanza, essere applicato. Ritengo che il giudice chiamato a convalidare il trattenimento nei centri di cui al Protocollo tra Italia ed Albania non possa che prendere atto della impossibilità di dare un’interpretazione della legge interna che eviti il contrasto con la norma europea e riscontri dunque l’esistenza di una insanabile non conformità delle specifiche previsioni contenute nella L. 21.02.24 n. 14 con il diritto europeo, ed in particolare con le disposizioni sul trattenimento dei richiedenti asilo di cui alla Direttiva 2013/33/UE.
Esaminando brevemente un altro aspetto di massima importanza, ovvero l’utilizzo delle strutture in Albania per un trattenimento finalizzato alla espulsione dei cittadini stranieri la cui domanda di asilo è stata definitivamente rigettata (una parte del futuro centro di Gjader), emergono, oltre ai già evidenziati problemi sull’applicazione extraterritoriale del diritto UE, altre problematiche di legittimità non meno rilevanti. La Direttiva 115/2009/CE sui rimpatri prevede infatti che le misure di espulsione dal territorio di uno Stato membro devono sempre essere progressive e deve essere privilegiata la misura del rientro volontario. Nessuna proporzionalità delle misure, e ovviamente nessuna possibilità di accedere a forme di rientro volontario, è invece prevista nel funzionamento del centro per le espulsioni in Albania. Anche sotto questo profilo emerge dunque un chiaro contrasto con il diritto dell’Unione sui rimpatri e in particolare con la richiamata Direttiva.
Si delinea con chiarezza quale sia dunque il reale scopo di voler portare coattivamente in Albania oggi (e domani forse in altri paesi compiacenti) un certo numero di naufraghi. Nulla che abbia a che fare con la gestione del sistema di asilo e di accoglienza i cui problemi rimarranno invariati o forse accresciuti dall’enorme sperpero di risorse pubbliche che la costruzione e la gestione dei centri in Albania comporta. L’obiettivo reale è quello di sperimentare una gestione dei migranti connotata dall’indebolimento radicale delle garanzie e dal loro confinamento assoluto. La creazione quindi di un “altrove” dove le regole sono, sulla carta, le stesse di quelle previste nel territorio italiano, ma nella realtà sono del tutto sterilizzate. Oggi per i migranti, domani forse per altri. Un disegno che va al più presto archiviato tra le molteplici pagine oscure di questo Paese.