La denuncia

Niente interviste ai boss e ai collaboratori di giustizia in carcere: chi ha paura della verità, ministro Nordio?

Il Dap ha negato il permesso di sentire alcuni detenuti di Sulmona, No anche alla richiesta di intervistare dei collaboratori di giustizia. Perché, ministro Nordio?

Editoriali - di Massimiliano Iervolino

15 Settembre 2024 alle 14:30

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Niente interviste ai boss e ai collaboratori di giustizia in carcere: chi ha paura della verità, ministro Nordio?

Autorizzazione negata. Questa è la risposta che mi è stata data (per ora solo a voce) dall’ufficio stampa del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) alla richiesta avanzata dal sottoscritto di intervistare una serie di persone detenute all’interno del carcere di Sulmona. Motivazioni del diniego? Zero. Nessun riscontro.

È invece il silenzio che si cela attorno alla presentazione di una istanza con la quale ho chiesto l’autorizzazione per incontrare diversi collaboratori di giustizia. Infatti nonostante siano passati molti mesi e diverse sollecitazioni, la Commissione centrale – ex art 10 legge 82/1991, deputata a dare o meno il nulla osta – non ha mai risposto. Ancorché il Servizio Centrale di Protezione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza abbia dato parere favorevole. Sia l’una che l’altra richiesta sono state avanzate al fine di poter compiere una indagine su come la criminalità organizzata sia cambiata dagli anni 70 con il traffico degli stupefacenti. Un passaggio importante nella storia d’Italia che nessuno ha mai approfondito. Eppure con l’avvento della droga i clan realizzarono un salto di qualità notevole giacché da quel momento in poi aumentarono esponenzialmente gli introiti e con essi il potere, la brutalità e i morti.

Difatti tra la fine degli anni 70 e gli inizi degli anni 80 in Italia si contarono più di 1.000 omicidi. Un numero spaventoso. Vittime della seconda guerra di mafia e della prima di camorra. Quindi qualcosa di importante accadde in quegli anni, la mafia siciliana ne fu la protagonista assoluta, fiutando l’affare cambiò i suoi traffici passando da quello delle sigarette all’eroina: da quel momento in poi nulla sarà come prima. Mi sto occupando di questa metamorfosi. Un processo irreversibile favorito dalle politiche proibizioniste. Profitti elevatissimi tali da – nel caso di Totò Riina – disporre dei mezzi e della capacità di dichiarare guerra allo Stato. Una vera e propria follia terroristica nutrita dai miliardi del narcotraffico e messa in campo non a caso da coloro i quali, i corleonesi, venivano chiamati in modo dispregiativo “i peri incritati” (piedi sporchi di fango) vista la loro provenienza povera e rurale. Buscetta di tutto questo ne era a conoscenza e rivolgendosi a Falcone esclamò: “per sconfiggere la mafia deve sconfiggere il traffico di droga, se gli toglie quella Riina torna a fare o’ pastore.”

Sono quelli gli anni centrali di questa metamorfosi del male. Il primo ad accorgersi di questo mutamento fu Boris Giuliano, il quale scoprì nella seconda metà degli anni 70 il traffico internazionale di stupefacenti dalla Sicilia a New York. La cosiddetta Pizza Connection: raffinerie di eroina in Provincia di Palermo e valigie a doppio fondo piene di soldi che arrivavano dagli Stati Uniti all’aeroporto di Punta Raisi. Indagine che costò la vita allo stesso Giuliano, ammazzato dai corleonesi il 21 luglio 1979 a Palermo. Gaspare Mutolo delineò i guadagni di un mafioso dell’epoca collegati ai due diversi traffici illeciti: “Con le sigarette ci doveva vivere tutta la mafia, guadagnavo 2 milioni di lire al mese, più c’era qualche estorsione e qualche rapina. Dopo invece quando si entrò nella droga uno poteva guadagnare 10, 20, 30, 40 o 50 milioni di lire al mese. Dal 1981 in poi, ho controllato uno dei traffici più importanti, grazie alla conoscenza che avevo fatto con Koh Bak Kin, da qual momento non potevo fare i conti, guadagnavo 100 milioni a settimana od ogni due giorni.”

All’epoca i corleonesi inviavano negli Usa circa 500 kg di eroina per ogni carico, una spedizione costava intorno ai 6 milioni e mezzo di dollari, ne ricavavano circa 160. Un’enormità. Dei tanti libri, documentari e film che sono stati prodotti per raccontare quegli anni, nessuno a mio avviso ha dato centralità al traffico internazionale e nazionale degli stupefacenti. Eppure c’è un prima e un dopo. Basta contare i morti e gli arresti. Quando in Italia (ma non solo) scoppiò il boom dell’eroina tutto cambiò. In primis le mafie. Un punto di non ritorno. Per questo ho deciso di approfondire l’argomento. Una ricerca storica, appunto.

Raccontare la metamorfosi del male attraverso l’aiuto di libri, sentenze, testimonianze processuali, relazioni della commissione antimafia e tanto altro. Ma anche tramite interviste con magistrati e giornalisti dell’epoca, uomini delle forze dell’ordine e politici nazionali che ai tempi dei fatti ricoprivano ruoli di primo piano. Tuttavia questa ricerca rimarrebbe monca senza poter ascoltare i veri protagonisti: i boss. Chi meglio di loro – ormai tutti ottantenni e senza nessun fatto ancora processualmente rilevante – può raccontare cosa era il crimine prima e dopo l’ingresso della droga nel loro core business? Chi meglio di loro può dire una parola chiara (e definitiva) sul proibizionismo e sull’antiproibizionismo?

Sono stato segretario di Radicali italiani per diversi anni, sono stato consulente della commissione ecomafie per più di una legislatura, perché vietarmi il colloquio con questi detenuti e collaboratori di giustizia? Chi ha paura della verità? Magari qualche parlamentare può porre queste domande direttamente al ministro Nordio e al ministro Piantedosi. Perché no?

15 Settembre 2024

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