L'ipotesi scandalosa

Fu Riformismo Armato: quella stagione straordinaria del Pci di Berlinguer e delle Brigate Rosse

È una ipotesi scandalosa, lo so, ma a me sembra anche molto credibile: il terrorismo rosso, nel ventennio ’72-’92, spinse l’Italia verso una straordinaria stagione di riforme. E l’avvicinò al socialismo

Editoriali - di Piero Sansonetti

14 Agosto 2024 alle 09:00

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Fu Riformismo Armato: quella stagione straordinaria del Pci di Berlinguer e delle Brigate Rosse

Questo articolo, e il punto di vista che sostiene, forse possono scandalizzare. Perché propongono una lettura degli anni che vanno dal 1972 al 1992 in netto contrasto con il senso comune e con le ricostruzioni storiche.

Parto da Aldo Moro. Che solitamente è considerato uno dei padri del riformismo italiano del dopoguerra. Io penso il contrario. Moro, secondo me, fu il principale ostacolo alla realizzazione di riforme profonde. Almeno lo fu dopo il 1964, quando, insieme a Saragat, sventò un tentativo di colpo di Stato favorito dalla destra democristiana e forse anche dal Quirinale, e trattò con Segni offrendo la rinuncia al piano di riforme che il centrosinistra stava mettendo a punto e che avrebbe portato a una trasformazione molto profonda del paese. Lo scambiò con la stabilità e la difesa della democrazia politica. In quel momento Moro si rese conto che, almeno per un periodo storico di media durata, democrazia e riformismo non erano compatibili. In quell’estate del 1964 – giusto 60 anni fa – successero parecchie cose. L’incidente nel Golfo del Tonchino che spostò su posizioni belliciste e reazionarie – in politica estera – l’amministrazione americana che invece sul piano della politica interna stava muovendosi su posizioni socialdemocratiche, la morte di Togliatti, la malattia di Segni, e di fatto la fine del sogno di Nenni di trasformare il centrosinistra nel motore di una svolta socialista.

Da quel momento Moro si comportò sempre in modo coerente. Mettendo al primo posto della sua azione politica la difesa della democrazia (che non era ancora così sicura in una Europa dove esistevano regimi dittatoriali sia ad est, oltrecortina, sia ad ovest, nella penisola iberica. E dove l’eventualità del colpo di stato non era lontana, e infatti ne avvennero a distanza di un anno sia in Occidente – i colonnelli greci – sia a Praga – con l’invasione russa che stroncò l’inizio della democratizzazione). Alla difesa della democrazia e alla stabilizzazione del regime democristiano Moro dedicò tutte le sue energie politiche e umane. Lui riteneva, e forse a ragione, che democrazia e regime democristiano fossero un binomio indissolubile in Italia. Questo lo rese nemico delle riforme. Non sempre riuscì ad impedirle (divorzio, statuto dei lavoratori, punto unico di contingenza) ma mai le vide di buon grado. E quando le accettò lo fece sempre per lo stesso motivo: abbassare la conflittualità che costituiva una minaccia costante per la stabilità. Moro fu conciliante col ‘68, più di molti democristiani e persino di alcuni comunisti. Ma non fu conciliante perché apprezzava le istanze degli studenti, e poi degli operai, ma sempre per la stessa ragione: abbassare il livello del conflitto e della tensione politica. Moro fu il principe della strategia della non-tensione.

Io non so se le Brigate rosse avessero chiara la funzione di Moro. Che era molto diversa da quella di Fanfani e di Andreotti. Fanfani era uno statista di movimento. Credeva molto alla funzione dello Stato e concepiva il riformismo come la profondità dell’intervento dello Stato in economia. Fanfani era un riformista in economia, ma certo non lo era sul piano culturale. Era favorevole al miglioramento delle condizioni economiche degli strati sociali più deboli, ma non certo al loro avanzamento sul piano della cultura e del potere. Andreotti era un monumento alla duttilità. Riteneva che il centro di tutto, in politica, fosse il potere e il mantenimento del potere, e che tutto il resto fosse in funzione di questo. Pensava che il potere fosse la democrazia e che la democrazia fosse il potere. E che il buon politico non fosse chi aveva un buon disegno politico, ma chi sapeva adattare il disegno politico alle situazioni e all’obiettivo di mantenere il potere. Andreotti non aveva nessun feticismo del potere. Non lo considerava un premio. Lo considerava un dovere. Andreotti e Fanfani in ogni caso non erano un ostacolo alle riforme. L’ostacolo era Moro.

Non so – dicevo – se le Brigate rosse fossero di questo parere. Non so se scelsero Moro perché avevano intuito che eliminandolo dalla lotta politica aprivano le porte alle riforme. Forse sì. O forse in quei frangenti agì solo la cosiddetta “astuzia della ragione”. Il rapimento di Moro indebolì la democrazia e aprì le porte al riformismo. Cambiò i rapporti di forza tra democrazia e riformismo. In quell’occasione Berlinguer fu molto bravo a cogliere il momento. È stato il suo merito più grande. È stato il merito più grande del Pci. Da una parte si offrì come baluardo della democrazia, giocandosi anche la vita di Moro in questa partita. Dall’altra spinse l’acceleratore quanto più fu possibile, per ottenere le riforme. Guardate le date. Abolizione dei manicomi, riforma sanitaria, aborto, equo canone, riforma dei patti agrari, diritto di famiglia, avvio della riforma della giustizia. È un pacchetto di riforme di evidente natura rivoluzionaria, accompagnato dall’unificazione del punto di scala mobile – che è di tre anni prima – che assicurava una rapida perequazione nei salari e negli stipendi che allora erano formati in parte rilevante dalla scala mobile. Tutto successe nel giro di pochi mesi. Nella seconda metà del 1978, a partire da poche settimane dopo l’uccisione di Moro.

La destra non ebbe il tempo di riorganizzarsi. Soprattutto perché in Italia il terrorismo rosso aveva spinto il senso comune su posizioni sempre più di sinistra. L’Italia all’inizio del 1979 assomigliava pochissimo all’Italia del 1967. Era diventata un paese moderno con un regime politico-economico molto vicino al socialismo. Il capitalismo aveva perso molto potere. Il liberismo era scomparso. Da chi era venuto il carburante per questo spostamento? In parte dal grande rafforzamento del Pci di Berlinguer e dalle sue straordinarie capacità e intuizioni tattiche. L’idea del compromesso storico, strategicamente assai debole, aveva una forza tattica dirompente. E come appena illustrato, portò a risultati impensabili. Dall’altra, c’era la forza del movimento operaio e studentesco, e l’autorevolezza del sindacato, che misero a disposizione una energia gigantesca, e che mai più si sarebbe riprodotta.

Poi ci fu un terzo elemento a spingere le riforme. Indicibile. Il clima intimidatorio instaurato dalle Brigate rosse e dai loro delitti. La tesi che le Br fermarono la spinta riformista è del tutto ideologica e ipocrita. È evidentemente falsa. Il periodo di maggiore e più feroce attività delle Brigate rosse coincise con le grandi riforme e con lo spostamento a sinistra del paese e del suo senso comune. Si può dire contemporaneamente che le Brigate rosse furono criminali, perché compirono azioni criminali, e riformiste, perché compirono azioni riformiste? Io penso di si. Penso che sia giusto parlare di riformismo armato. E di accettare che quella stagione straordinaria di riforme, che ancora pesano sulla nostra storia, fu il risultato dell’azione di due forze politiche opposte: il Pci e le Brigate rosse.

(Continua)

14 Agosto 2024

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