45 anni fa l'assassinio

Chi era Aldo Moro, il mite profeta della democrazia incompiuta

Ancoraggio euroatlantico e apertura verso la società: ecco i due pilatri sui quali lo statista edificò la sua idea di Paese ancora oggi attuale

Politica - di Stefano Ceccanti

24 Maggio 2023 alle 18:35

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Chi era Aldo Moro, il mite profeta della democrazia incompiuta

Una delle preoccupazioni fondamentali di Moro nel periodo costituente, è quella di evitare una chiusura oligarchica del sistema dei partiti, pur uscito forte e legittimato dalla Resistenza. Tale necessità emerge in molti interventi parlamentari, non solo quello molto noto del 22 maggio 1947 a favore dell’emendamento Mortati sul vincolo di democrazia interna alla vita dei partiti, ma anche quelli del 14 ottobre dello stesso anno contro la costituzionalizzazione del voto segreto nell’approvazione delle leggi che eluderebbe “la necessaria assunzione di responsabilità di fronte al corpo elettorale”, nonché quello del 16 ottobre per non mettere limiti temporali rispetto all’entrata in vigore delle leggi assoggettabili a referendum giacché da subito deve poter emergere “la possibilità di un disaccordo fra la coscienza pubblica e le Camere”. Anche lo scioglimento anticipato, dice il 24 ottobre dello stesso anno, serve soprattutto ad “adeguare la rappresentanza popolare ai reali mutamenti dell’opinione pubblica”.
Una prospettiva di apertura, quella di Moro, che riguarda anche la revisione costituzionale, compresa la possibilità di revisioni puntuali alle formulazioni sui diritti, come precisa il 3 dicembre, giacché, parlando contro un emendamento che vorrebbe rendere non revisionabili quegli articoli, Moro invita a distinguere il nucleo dei diritti naturali che va tenuto fuori dalle “mutevoli esigenze della vita pubblica” dalle loro formulazioni concrete, precludendosi “quelle riforme di dettaglio che attengono a quel tanto di storico e di mutevole che è in questi diritti assoluti”. Ipotesi rimasta astratta fino alla recente costituzionalizzazione del diritto all’ambiente nella parte Principi fondamentali, fin lì immutata.
Questa apertura va di pari passo con la preoccupazione per le divisioni del sistema dei partiti sulle alleanze internazionali, che rendono quella italiana una democrazia difficile senza possibilità reali di alternanza. Per Moro non poteva essere pensata come irreversibile neanche l’adozione della proporzionale come uscita dalla Costituente, come preciserà nell’ampio intervento dell’8 dicembre 1952 alla Camera a favore della legge con premio di maggioranza. Il Costituente la decise come legge ordinaria, ma non volle costituzionalizzarla ritenendo che “dovesse lasciarsi libertà al futuro legislatore di adeguare di volta in volta il sistema elettorale prescelto alla realtà del momento politico”. Ed essa secondo Moro richiede una netta distinzione tra la maggioranza chiamata a governare e la minoranza chiamata a controllare. Certo, la situazione obiettivamente è di lacerazione sulle scelte di fondo che non consente al momento l’alternanza, ma questa condizione che porta attraverso la legge ad una “certa cristallizzazione della situazione politica” è “da addebitare alle forze politiche” che non accettando l’alleanza eurotlantica hanno “introdotto un significato di democrazia che sostanzialmente contrasta con un autentico ideale democratico”.
Nella legislatura successiva, nel corso del dibattito sulle tensioni relative a Trieste il 6 ottobre 1953 alla Camera Moro chiarisce esattamente il senso dell’euroatlantismo, dell’indissolubilità delle due scelte complementari: “questo sistema di integrazione – che noi chiamiamo sistema atlantico – riteniamo che possa essere un contributo alla pace dei popoli” e “abbiamo fiducia” anche nell’ “unità europea”, in un’ “Europa che è per se stessa una struttura anti-egemonica”. Moro vi ritorna poi in un momento delicatissimo, il 29 settembre 1954 sempre a Montecitorio, a ridosso del fallimento della Comunità europea di difesa, ribadendo la validità del disegno. La Ced è caduta per i nazionalismi europei, non certo per l’ “atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dell’unità europea”, notoriamente favorevole e che “dimostra che questo (loro) intento egemonico non esiste”. Resta decisivo per il futuro “un nucleo europeo dell’alleanza atlantica” che ora si sarebbe chiamata Ced e “che domani chiameremo probabilmente in un altro modo”. Viene poi il momento di un’intesa militare ben più limitata, quella della Ueo, l’Unione Europea Occidentale, e Moro il 23 dicembre 1954 sempre alla Camera ha quindi modo di tornare a chiarire l’impostazione euroatlantica: “La nostra politica ha proceduto in questi anni secondo queste due direttive: formare e rafforzare una solidarietà occidentale in senso generale; inserire, nell’ambito della generale solidarietà dell’Occidente, una particolare comunità europea”.
Da qui la soddisfazione per la chiusura dell’esperimento Tambroni nell’intervento del 5 agosto 1960 sulla fiducia al III Governo Fanfani alla Camera che ottiene l’astensione del Partito Socialista, in cui Moro ben chiarisce che la nuova fase è possibile per le posizioni socialiste su Europa e Nato: la responsabilità richiesta al Partito Socialista non è perché esso “annulli la carica di sinistra ma la riconduca nell’alveo democratico” e quando poi si forma il Fanfani IV con la partecipazione del Psi il 9 marzo 1962 a Montecitorio ribadisce la “non oscillante ed evanescente posizione di politica estera” delle “forze ancorate” al “presupposto dell’autonomia degli interessi nazionali e del loro spontaneo coordinarsi con quelli dei popoli liberi”.
Il governo Moro IV, sorto qualche mese dopo il decisivo referendum sul divorzio, viene presentato dal presidente del Consiglio già come una sorta di ponte verso l’opposizione comunista che ha cambiato posizione sull’Europa e sembra sulla strada di modificare anche quella sulla Nato. Per un verso Moro, nel suo intervento del 2 dicembre 1974 alla Camera, fotografa la realtà, quella di una “democrazia difficile con ridotte possibilità di un vero e continuo succedersi di forze politiche nella gestione del potere” che resta per lui il migliore modello democratico, a causa delle “profonde diversità” che rendono meno credibile “l’alternanza al potere”, ma non si ferma lì, rispetto a possibili iniziative dell’opposizione di un confronto di cui “non solo non abbiamo timore, ma anzi lo ricerchiamo”. È un’unità ricercata con tenacia che Moro poi celebra il 15 febbraio 1977 a Montecitorio, intervenendo sull’elezione diretta del Parlamento europeo che sarà poi operativa nel 1979. Moro sottolinea con soddisfazione che tra le principali forze politiche del Paese vi “è un sostanziale accordo per essere europei, per ritenere che questo è il nostro destino” e che questo si collega a rapporti che “debbono essere fiduciosi ma equilibrati tra l’Europa e gli Stati Uniti d’America”, un “legame vitale non lo riteniamo in alcun modo in contraddizione con l’autonomia che vogliamo acquisire”. Tra l’ottobre e il dicembre 1977 le Camere voteranno poi solenni mozioni di politica estera in cui le forze politiche che aderiscono alla maggioranza di solidarietà nazionale affermeranno la comune volontà di rispettare le alleanze internazionali dell’Italia. Cominciava così a compiersi l’auspicio di Moro nella seduta della Costituente del 13 marzo 1947 di trovare “nell’atto di costruire una casa comune un punto di contatto, un punto di confluenza” che si era realizzata solo in parte alla Costituente a causa della frattura della Guerra Fredda. Era l’apertura della terza fase della democrazia italiana, dopo il dialogo della Costituente e l’egemonia della Dc nel periodo della Guerra Fredda, che poteva, come ha interpretato in modo pieno e puntuale Ruffilli, finalmente preludere alla fisiologia dell’alternanza.
Tuttavia varie forze erano ancora in campo per impedire, dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino, questo esito fecondo, tra cui l’eversione armata. E il modo rallentato con cui ci siamo poi arrivati ha nuociuto gravemente alla qualità dell’esito. Ma Moro ci avrebbe invitato a non piangere sul latte versato e a guardare avanti, come fece con i suoi parlamentari il 28 febbraio 1978, invitandoli a scegliere non una logica testimoniale, minoritaria, ma l’etica della responsabilità. “Io credo che dobbiamo domandarci – disse allora – sempre di fronte anche ai grandi fatti politici, che non sono regolati dalla pura convenienza (io non credo che la politica sia pura convenienza, ha coefficienti di convenienza ma non è pura convenienza; la politica è anche ideale): di fronte a questa situazione vogliamo fare della testimonianza, cioè una cosa idealmente apprezzabile, rendere omaggio alla verità in cui crediamo, ai rapporti di lealtà che ci stringono al Paese, o vogliamo promuovere una iniziativa coraggiosa, una iniziativa che sia misurata, che sia nella linea che abbiamo indicato e sia pure nelle condizioni nuove nelle quali noi ci troviamo?”. Parole che costituiscono tutt’oggi una grande sorgente di ispirazione.

24 Maggio 2023

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