Taormina Film Fest
Il giudice e il boss, parla il regista Scimeca: “Senza Cesare Terranova non ci sarebbe stato Falcone”
“Il giudice e il maresciallo Lenin Mancuso sono stati i primi a capire che la mafia aveva lasciato il feudo e si era insediata in città: il pool antimafia nasce dalle loro intuizioni, pagate con la vita”
Cultura - di Chiara Nicoletti
Con un’anteprima mondiale nella quintessenza del cinema italiano e siciliano, il Teatro Antico di Taormina, nell’ambito della 70esima edizione del Taormina Film Fest, Pasquale Scimeca introduce il suo nuovo lavoro, Il giudice e il boss. A 24 anni da Placido Rizzotto, film sul sindacalista ucciso dalla Mafia, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, Scimeca torna a raccontare la Mafia andando questa volta all’origine della lotta contro Cosa Nostra, portando sul grande schermo le storie del Giudice Cesare Terranova e del poliziotto Lenin Mancuso, antesignani, precursori. Furono loro i primi a comprendere che la mafia era un’organizzazione criminale unitaria che agiva di concerto con elementi della politica, della massoneria, dell’amministrazione pubblica e dell’economia. Alla fine degli anni 60 iniziarono le indagini, lottarono, furono abbandonati e lasciati soli e poi assassinati ma nonostante tutto, aprirono la strada a chi è venuto dopo. Cesare Terranova è stato il modello a cui si sono ispirati Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lenin Mancuso, come sottolinea lo stesso Scimeca, è stato l’esempio a cui si sono ispirati Ninni Cassarà e gli altri poliziotti della squadra mobile che dopo di lui verranno uccisi dalla mafia. Incontrato a Taormina, Pasquale Scimeca rimarca il potere salvifico del cinema, delle arti, della conoscenza e dei modelli virtuosi per combattere la mafia e il male.
Perché raccontare questa storia? e perché non è mai stata raccontata?
Non è stata mai raccontata perché c’è stato un calarsi le brache da parte degli intellettuali e dei registi italiani. I temi della mafia, strano a dirsi, interessano pochissimo, soprattutto la lotta alla mafia. Questo è il motivo principale.
Io invece ne ho sempre parlato, fin dai tempi di Placido Rizzotto. A me interessa raccontare due cose: gli ultimi perché la mia formazione è verghiana e do voce a chi è stato dimenticato, a chi è ai margini della società o ai margini della storia come in questo caso e raccontare la storia in modo non cronachistico ma in modo epico. A partire da Placido Rizzotto, un uomo che ha combattuto la mafia quando era ancora un fatto agricolo, del feudo, seguendo poi un altro grande personaggio del nostro tempo che non c’entra con la mafia. È tutta un’altra storia però è importantissimo perché ci ha insegnato a riscoprire la spiritualità e il vero senso della vita, i temi cari a San Francesco: fratello Biagio Conte. E poi il giudice Terranova e il maresciallo Mancuso: loro sono quelli che per primi hanno capito cosa stava succedendo e soprattutto hanno fatto le indagini sulla mafia che lasciava il feudo, il mondo agricolo, per trasferirsi nelle città. Non solo nelle città siciliane ma anche nelle città del Nord perché il boss Luciano Liggio mette le sue basi a Milano e da lì inizia quel movimento delle mafie che si espandono, quello che Leonardo Sciascia chiamava la linea della palma che sale sempre di più e che fa sì che oggi la Lombardia abbia gli stessi problemi, rispetto alla mafia, di Sicilia e Calabria.
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Perché invece si è raccontato spesso di coloro che sono venuti dopo Liggio per le fila della mafia e Terranova e Mancuso tra i “buoni” ?
Da storico oltre che regista vi dico che non si è mai parlato dell’anello mancante. Si è passati direttamente dai grandi film di Rosi, incluso il mio Placido Rizzotto oppure il film su Peppino Impastato, I Cento passi, a Falcone, Borsellino, le stragi etc. Ed è un peccato perché invece io penso che, per capire che cosa hanno fatto veramente Falcone e Borsellino, sia importante sapere cosa ha fatto Cesare Terranova e cosa ha fatto Lenin Mancuso, perché è tutto un processo evolutivo, chiamiamolo così, di comprensione del fenomeno mafia. Terranova e Mancuso sono stati quelli che hanno capito prima degli altri in che modo si stava evolvendo la mafia e soprattutto qual era il percorso che stava seguendo. Fino a Terranova di mafia non se ne parlava, si faceva l’inaugurazione degli anni giudiziari dove i procuratori della Repubblica ed i presidenti di tribunale negavano che la mafia esistesse. Dicevano che era un’invenzione dei giornalisti, di Sciascia. Terranova ha dimostrato che non solo la mafia esisteva ma che era ed è un qualcosa di unitario. Essendo stato parlamentare e in commissione antimafia, per la prima volta ha fatto i nomi dei politici e degli uomini di economia collusi con la mafia. In questo caso specifico: Vito Ciancimino, Salvo Lima e i fratelli Salvo che erano i personaggi più ricchi della Sicilia all’epoca.
Rispetto a quando ha iniziato a raccontare queste cose nel suo percorso da regista, com’è cambiato il ruolo del cinema secondo lei?
Poco, anzi quasi niente, purtroppo. Si continua a rendere protagonisti i mafiosi e si mitizzano. Questo è un problema che c’è dai tempi de Il Padrino che è sì un film straordinario, bellissimo, ma che ha dato luogo ad una tendenza che da allora in poi ha continuato ad andare avanti, se pensiamo a tutta la serialità di oggi, ad esempio. Siamo liberi di farli questi film e queste serie ma noi autori, prima di tutto, dobbiamo capire che se facciamo un film dove il protagonista è un camorrista, un mafioso e ne facciamo un eroe, quelle figure lì influenzano i comportamenti di ragazzi che non hanno strumenti per capire. Ragazzi dai quartieri popolari dove la mafia è presente. Non dico di non fare questi film ma si dovrebbe perlomeno contrapporgli qualcosa, creare un equilibrio. Io faccio un film dove i miei eroi sono Terranova e Mancuso per dire che sono quelli che la mafia l’hanno combattuta. Succede purtroppo troppo spesso che l’eroe sia un camorrista, un mafioso, vedi serie come Suburra ad esempio. Esiste l’arte che viene prima di tutto ma esiste anche la società, il linguaggio e quindi bisogna capire che anche fare un film non è gratuito, ha delle conseguenze.
Quanto era importante in questo film raccontare anche il privato gli uomini dietro i personaggi?
Fa parte di questo discorso sullo sfatare i miti e portarli sul piano umano. Liggio era un poveraccio, stava male, soffriva, era uno che quando finisce in carcere, piange. Lo vedi nel maxiprocesso con il sigaro in bocca tutto spavaldo ma quella era apparenza. Io ho voluto proprio raccontare la parte umana di questo personaggio per far capire che non c’è mitologia, che queste non sono persone straordinarie, sono veramente dei poveracci che poi pagano fino in fondo le loro colpe e finiscono sepolti dentro un carcere.