Legge e violenza
Cosa sta accadendo in Somalia, il cimitero della guerra tra fanatici e infedeli
La vicenda somala insegna ai “paesi liberi” come non si possa mai edificare il paradiso, pensando l’inferno
Esteri - di Sergio D'Elia
Nel Paese più armato, protetto e assistito al mondo, la violenza è all’ordine del giorno, la legge e l’ordine non esistono, la vita non vale niente. Se uno chiede: in Somalia, chi sono i “cattivi” e chi sono i “buoni”, la risposta scontata è: da una parte ci sono gli Al-Shabaab, i fanatici della “legge di Dio” che lottano senza tregua e senza pietà contro gli infedeli; dall’altra ci sono i militari che li combattono in modo eguale e contrario, senza tregua e senza pietà, in nome di Dio e delle Nazioni Unite, della pace e della sicurezza internazionali. Le parti sembrano inconciliabili, solo la pena di morte – quella sommaria e quella legale, quella giudiziaria e quella extra-giudiziaria – li accomuna.
Gli Al-Shabaab sono più teatrali. Quando devono punire i “nemici di Allah” chiamano a raccolta i “fedeli” al centro del villaggio. Centinaia di residenti sono convocati con gli altoparlanti e assistono allo spettacolo della “morte all’infedele”. La scena è sempre la stessa. Un sedicente giudice del tribunale della sharia non pone tempo in mezzo tra il dire e il fare giustizia: accusa, condanna e decreta l’esecuzione del malcapitato che è stato già legato al palo. Dopo l’esecuzione, gli Al-Shabaab seppelliscono le loro vittime in luoghi chiamati, per l’appunto, “cimiteri degli infedeli”. Questa è la fine che fanno i cristiani e gli apostati dell’Islam, ladri e rapinatori, i maghi e le streghe, gli adulteri e i sodomiti, e le spie di ogni tipo: al servizio del governo somalo, della forza militare dell’Unione Africana, della CIA e dell’MI6 inglese.
I militari somali rispondono a specchio, con una logica e una violenza pari a quelle dei loro nemici. Anche i loro tribunali sono da giustizia sommaria e non vanno molto per il sottile. Certo, esiste un lasso di tempo che intercorre tra la sentenza e l’esecuzione, ma la velocità con cui le condanne a morte sono eseguite impedisce comunque agli imputati di presentare ricorso in appello e al Presidente di esaminare una possibile istanza di grazia o commutazione della pena. Anche la comunità internazionale ha espresso la propria preoccupazione per il “frettoloso” procedimento giudiziario che ha portato a decine di esecuzioni. I tribunali dei “buoni” non si occupano solo dei “cattivi”, operano ad ampio spettro. Non processano solo combattenti di Al-Shabaab, soldati disertori e accusati di reati militari, ma anche soldati, poliziotti e civili accusati di reati comuni. La giustizia militare è meno teatrale di quella coranica. Gli spettatori sono uomini in divisa, funzionari statali e amministratori locali. Il patibolo è ridicolo: pali di legno conficcati nella sabbia fanno da treppiedi a un palo più alto dove il condannato è legato come un salame. Lo sfondo è anonimo, di solito un terrapieno o un mucchio di sassi.
È la stessa scena che si è presentata il 6 giugno scorso agli occhi di quei pochi che hanno assistito all’esecuzione di tre uomini a Dusa Mareb, una città di novemila abitanti, capoluogo della Regione del Galmudug, nella Somalia centrale. Il tribunale militare ha ritenuto i tre colpevoli dell’omicidio del dottor Ahmed Hassan Osman e di suo fratello minore Liban, un insegnante di Corano, nella zona di Ilix, nel dicembre 2023. I tre giustiziati – Nur Abdi Mohamed, Shucaib Mohamed Farah e Bile Abdullahi Hassan – sono stati condannati a morte il 27 febbraio di quest’anno dopo essere stati giudicati colpevoli del crimine. Anche loro sono stati legati al palo di legno ficcato nella sabbia. Davanti al plotone d’esecuzione si sono presentati coi vestiti di tutti i giorni, una maglietta rossa da giocatore di calcio e un pareo da mare colorato. L’obiettivo del governo nel mandarli al patibolo era molto più ambizioso di una semplice resa dei conti. Era il passo necessario di fronte ai crescenti episodi di omicidi per vendetta nella Somalia centrale.
La regione di Galmudug ha una lunga storia di sanguinosi conflitti tribali, spesso alimentati dalla competizione per gli scarsi pascoli e le risorse idriche, vitali per le comunità pastorali nomadi della regione. Sia il governo federale somalo che l’amministrazione regionale di Galmudug hanno più volte esortato le comunità a deporre le armi e hanno persino inviato mediatori per accordi di pace. Sfortunatamente, questi sforzi non hanno ancora prodotto risultati significativi e il governo ha scelto la via militare. Il ciclo di violenza è continuato. La Somalia ci ricorda drammaticamente che nella tragica teoria di vendette, private e di Stato, Caino non diventa mai costruttore di città e la vita è un grande cimitero dove da infedeli, in un modo o nell’altro, ci finiscono tutti: gli Al-Shabaab nemici giurati, i militari “nostri” alleati, gli assetati d’acqua e gli affamati in terra somala. I mezzi prefigurano sempre i fini. E non può esistere un mondo “buono” e un “modo giusto” in cui si possa costruire la pace, pensando la guerra. La vicenda somala insegna ai “paesi liberi” come non si possa mai edificare il paradiso, pensando l’inferno.