Il caso del giornalista
Perché Julian Assange resta in prigione, la decisione della Corte inglese
Gli Stati Uniti sostengono che Assange è colpevole di spionaggio. In realtà è colpevole di giornalismo. Non è un traditore che ha avuto in mano dei segreti militari e li ha svelati per aiutare il nemico: è un giornalista che ha scoperto i segreti inconfessabili sulle atrocità commesse dall’esercito degli Stati Uniti.
Esteri - di Redazione
L’ Alta Corte inglese non ha deciso niente. Ha rinviato. Doveva stabilire se sia giusto consegnare agli americani Julian Assange – giornalista australiano di 52 anni che raccontò molti dei delitti commessi dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan – e lasciare che gli americani lo condannino per spionaggio ad una pena che potrebbe essere anche di 175 anni.
Gli Stati Uniti sostengono che Assange è colpevole di spionaggio. In realtà è colpevole di giornalismo. Non è un traditore che ha avuto in mano dei segreti militari e li ha svelati per aiutare il nemico: è un giornalista che ha scoperto i segreti inconfessabili sulle atrocità commesse dall’esercito degli Stati Uniti.
- Perché Julian Assange rischia una condanna a 175 anni di carcere per le rivelazioni di Wikileaks
- Assange, ipotesi di accordo con gli Usa: dichiararsi colpevole (di un reato minore) per uscire di prigione
- Assange verso l’estradizione negli Stati Uniti: udienza decisiva in Inghilterra per il fondatore di WikiLeaks
Cioè è un professionista che ha svolto il suo lavoro con il massimo di successo, e che probabilmente ha salvato molte persone, impedendo che i crimini di guerra continuassero. Ora Assange è in prigione. In una piccola cella di 6 metri quadrati. A Londra.
È lì da più di cinque anni. E altri tre anni li ha passati barricato nell’ambasciata dell’Ecuador, finché non è stato rapito da truppe inglesi che lo hanno catturato e portato in prigione. L’Alta Corte britannica ha stabilito che per ora resta in cella, e ha chiesto agli americani garanzie sul giusto processo e sulla rinuncia ad ogni possibilità di condanna morte.
È paradossale che le due più grandi potenze occidentali debbano discutere sulla possibilità o no di mettere a morte un giornalista colpevole di aver svolto il suo lavoro. Ci si chiede che fine abbia fatto la grande civiltà dell’Occidente, di fronte a questa barbarie.
E naturalmente si viene indotti a paragonare il caso Assange al caso Navalny, tragicamente finito con l’assassinio del dissidente russo. Quello che colpisce è che la questione si è aperta negli Usa, cioè nel paese del Watergate.
Il Watergate – e cioè lo scoop di due giornalisti del Washington Post che portò alle dimissioni del presidente Nixon – è considerato, non solo in America, il punto più alto del giornalismo di inchiesta.
In realtà non fu proprio giornalismo di inchiesta: fu una manovra dell’Fbi per eliminare il presidente americano, chiudere con la destra liberal e aprire la strada a Reagan. I giornalisti non fecero altro che ricevere dal numero 2 dell’Fbi le carte segrete che inguaiavano Nixon.
Esattamente come succede molto spesso, ancora oggi, in Italia, con i giornalisti che ricevono le carte o dai magistrati o dagli 007. Il Watergate fu l’inizio del giornalismo velinario al servizio di vari poteri. Assange è esattamente il contrario. È il giornalismo che travolge il potere. e il potere non perdona.