Il 23 marzo 1944
Eccidio delle Fosse Ardeatine, 80 anni fa la strage dei partigiani
Tra l’attentato di via Rasella che costò la vita a 33 soldati del battaglione Bozen e la strage passarono meno di 24 ore. Le persone scelte per l’esecuzione furono rastrellate dalle Ss e condotte sul luogo dell’esecuzione: Kappler le le sue truppe sparano alla nuca a 335 persone: 75 erano ebrei, 55 militanti di Bandiera Rossa
Editoriali - di David Romoli
Tra l’attentato di via Rasella, 23 marzo 1944, il più sanguinoso attacco contro truppe tedesche nell’Europa occidentale, e la strage per rappresaglia delle Fosse Ardeatine, la prima ma non l’ultima dell’occupazione nazista in Italia, passarono meno di 24 ore.
Nel suo magistrale libro di storia orale L’ordine è già stato eseguito Sandro Portelli ha dimostrato quanto universalmente diffusa sia la convinzione di un lasso di tempo molto maggiore tra via Rasella e l’eccidio.
Non è un particolare secondario. Intorno alle Fosse Ardeatine sono fiorite nei decenni molte leggende prive di fondamento e la principale è proprio quella secondo cui i tedeschi chiesero agli autori dell’attentato di consegnarsi per evitare la rappresaglia nell’ordine di dieci fucilazioni per ogni soldato tedesco ucciso.
Quella richiesta non fu mai avanzata. Non ci furono mai i manifesti affissi sui muri della capitale di cui si favoleggia. Non fu tentata alcuna trattativa: non ce ne sarebbe neppure stato il tempo.
Altra leggenda, ripresa in tempi recenti anche dal presidente del Senato La Russa, è quella secondo cui i soldati tedeschi presi di mira sarebbero stati una banda musicale armata solo di trombe e ottoni vari.
Si trattava invece della 11ma compagnia del battaglione SS “Bozen”. Erano reclute altoatesine ancora in fase di addestramento ed erano nella Capitale per svolgere compiti di ordine pubblico agli ordini del generale Karl Wolff, comandante delle SS e delle squadre speciali di polizia in tutta Italia.
Italiani di nascita i circa 160 soldati dell’11ma compagnia, come di tutta la Bozen, erano “optanti”, cioè avevano optato per la cittadinanza tedesca quando nel 1939 era stata lasciata loro la scelta, Si erano arruolati nelle SS, nel 1943, essenzialmente per evitare il fronte.
Tutte le mattine la compagnia marciava dalla caserma del Viminale sino al poligono di tiro vicino Ponte Milvio e tornava al Viminale nel primo pomeriggio. L’ordine tassativo era di marciare cantando a squarciagola la canzione Hupf mein Madel (Salta bella mia). Le reclute odiavano quella canzone e quella disposizione rigida, che però era sensata.
Lo spettacolo di una compagnia armata di tutto punto che marciava con gli stivaloni chiodati cantando a voce spiegata in tedesco doveva mettere paura alla popolazione. I soldati tedeschi a Roma erano pochi: moltiplicare l’effetto di deterrenza dovuto alla paura in una città che gli era profondamente ostile era una necessità.
A segnalare il passaggio quotidiano della compagnia fu Mario Fiorentini, militante dei Gap “centrali”, così chiamati perché operavano nel centro della città. I Gruppi armati patriottici erano la formazione armata del Partito comunista.
Tra i 6 partiti del Cln a Roma partecipavano militarmente alla Resistenza i socialisti del Psiup, con le Brigate Matteotti guidate da Sandro Pertini e il Partito d’Azione. I badogliani del Fronte militare clandestino diretti da Giuseppe Cordero di Montezemolo non sparavano: raccoglievano informazioni e le passavano agli alleati.
Il gruppo armato più forte, soprattutto nelle periferie, e quello che pagò il tributo più alto alla repressione nazista era Bandiera Rossa: comunisti molto critici con la linea del Pci. Gli scontri con Antonello Trombadori, capo dei Gap centrali fino all’arresto il 2 febbraio 1944, sostituito poi da Carlo Salinari, erano continui. Ma la rivalità tra i gruppi della Resistenza, anche quelli interni al Cln, fu alta solo al vertice. Tra i militanti operativi, tutti intorno ai vent’anni, prevaleva di gran lunga la solidarietà.
La responsabilità di aver deciso l’attacco più ambizioso sino a quel momento il 23 marzo, anniversario della nascita del fascismo a San Sepolcro se la assumerà Giorgio Amendola, responsabile militare del Pci romano e suo rappresentante nella giunta militare del Cln. Era previsto un doppio attentato.
I fascisti volevano celebrare la ricorrenza con una grade parata da concludersi al teatro Adriano: i partigiani intendevano attaccarli qui, in un’azione coordinata con socialisti. L’attentato contro i Bozen, invece, lo avrebbero condotto solo i Gap, senza coordinarsi con nessun’altra formazione armata. A bloccare inconsapevolmente l’attacco all’Adriano fu il comando tedesco, che ordinò ai fascisti di rinunciare alla parata e di spostare la celebrazione finale dall’Adriano al ministero delle Corporazioni in via Veneto, molto più difeso. Resta così solo l’attentato contro i Bozen.
Per settimane gli altoatesini erano passati tutti i giorni alla stessa ora tornando dal poligono: intorno alle 14. Negli ultimi giorni però le cose erano cambiate. La compagnia aveva saltato più volte l’addestramento e, anche se i partigiani non lo sapevano, il 23 marzo era anche l’ultimo giorno di addestramento.
Poi l’11ma compagnia avrebbe sostituito nella gestione dell’ordine pubblico la 10ma, che 20 giorni prima aveva sparato su Teresa Gullace, una donna che protestava dopo il fermo del marito in un rastrellamento, nella scena poi ripresa e ritoccata da Rossellini e Anna Magnani in Roma città aperta.
All’azione partecipano 17 partigiani, il gruppo più numeroso mai impiegato a Roma. Elemento centrale è Rosario “Sasà” Bentivegna, 22 anni: travestito da spazzino dovrà portare su una carriola la bomba costruita in casa, 18 kg, di esplosivo, e accendere la miccia al passaggio dei Bozen in via Rasella.
Subito dopo l’esplosione Bentivegna deve fuggire col la divisa da spazzino coperta da un impermeabile che porta con sé Carla Capponi, 25 anni, mentre gli altri partigiani, tra cui Franco Calamandrei e Marisa Musu, 19 anni, la più giovane, tireranno bombe a mano e apriranno il fuoco.
Il trasporto del pesante ordigno si rivela faticoso, difficilissimo. Una volta arrivato in via Rasella, Bentivegna deve aspettare per oltre un’ora e mezzo, fingendo di spazzare la strada nella postazione convenuta per l’esplosione, di fronte a palazzo Tittoni.
I Bozen per la prima volta sono in immenso ritardo. Carla Capponi aspetta di fronte alla redazione del Messaggero in via del Tritone fingendo di spulciare i giornali nell’edicola di fronte ma gli uomini della sicurezza dopo un po’ la notano, la fermano, le chiedono spiegazioni sull’impermeabile che ha con sé. Si allontana e riesce ad allontanare anche un gruppo di bambini che giocano in via Rasella.
La compagnia tedesca svoltò da largo Tritone in via Rasella alle 15.45. Bentivegna accese la miccia. Gli effetti dell’esplosione, che fu udita a chilometri di distanza, furono moltiplicati dall’esplosione delle bombe a mano agganciate alle cinture dei militari. I gappisti tirarono le bombe a mano e fuggirono: nessuno fu catturato.
I tedeschi reagirono sparando anche sulle finestre, convinti di essere stati colpiti dall’alto. Nella via si trovava, senza sapere niente dell’attentato, un gruppo di partigiani di Bandiera Rossa: uno fu ucciso dall’esplosione, un altro tirò fuori la rivoltella per rispondere al fuoco tedesco e fu abbattuto.
L’esplosione falciò anche un bambino di 12 anni che probabilmente aveva imboccato la via all’ultimo momento. Una domestica di 66 anni fu colpita a morte alla finestra: i tedeschi uccisero anche l’autista del questore di Roma Caruso, un militare fascista della Muti che era sceso dall’auto con la pistola in mano.
Tra i soldati si contarono subito 26 vittime, altri due morirono nelle ore successiva, saliti 24 ore dopo a 33. Nei rastrellamenti successivi furono arrestate circa 300 persone, parte delle quali finì alle Fosse Ardeatine.
Il comandante della piazza militare di Roma, generale Malzer, chiese di radere al suolo il quartiere, fermato dal console tedesco Moelhausen che si vide per le strade di Roma per la prima e ultima volta quel giorno. Da Berlino Hitler ordinò anche lui di spianare il quartiere e di fucilare 50 ostaggi per ogni tedesco caduto.
I comandanti militari tedeschi e il capo della Gestapo colonnello Kappler ritennero sufficiente la rappresaglia nell’ordine di 10 a 1. In seguito il feldmaresciallo Kesselring, comandante di tutte le truppe in Italia, si sarebbe vantato di aver salvato così molti innocenti.
L’idea iniziale dei tedeschi era quella di fucilare solo prigionieri già condannati a morte o accusati di reati passibili di pena capitale, più naturalmente gli ebrei, alcuni dei quali furono arrestati la mattina del 24 nelle strade del ghetto e che erano colpevoli per definizione.
Ma di condannati a morte ce n’erano solo 3 e di accusati di reati da pena capitale 16. Furono aggiunti subito 75 ebrei, poi tutti gli accusati per reati politici minori, come l’oltraggio alle truppe tedesche, i “noti comunisti” e i dirigenti della Resistenza incluso lo stesso Cordero di Montezemolo. Fu inserito nella lista anche Aldo Finzi, fascista della prima ora e amico di Mussolini, ebreo.
Incaricati dell’esecuzione dovevano essere gli altoatesini della Bozen, ma il comandante maggiore Dobbrick declinò l’incarico: i suoi uomini erano inesperti e cattolici, non c’era modo di prepararli alla mattanza “nel breve tempo a disposizione”.
La decisione fu quindi di affidare le esecuzioni a Kappler e alla sua Gestapo, con la specifica che anche gli ufficiali, a partire dallo stesso Kappler avrebbero dovuto sparare “per dare l’esempio”. All’ultimo momento arrivò la notizia della morte del trentatreesimo soldato tedesco. Nella fretta di completare la lista furono presi prigionieri a caso, inclusi alcuni che stavano per essere scarcerati. Alla fine erano pronte per essere fucilate 335 persone, 5 in più del necessario.
Intorno alle 13 del 24 marzo i prigionieri, con le mani legate dietro la schiena e senza essere avvertiti di cosa li attendeva, furono caricati su una colonna di camion e portati nelle gallerie sotterranee della via Ardeatina, il luogo scelto all’ultimo momento per l’esecuzione. I soldati tedeschi erano 75.
Il capitano Priebke leggeva uno per uno il nome dei condannati per spulciarlo dalla lista. Poi, divisi in gruppi, i prigionieri venivano fatti inginocchiare per essere finiti con un colpo di pistola dall’alto. Furono necessari 67 turni: Kappler sparò col secondo, Priebke col terzo.
Tra gli uccisi il gruppo più numeroso furono gli ebrei, con 75 caduti, seguiti dai militanti di Bandiera Rossa, 55 fucilati. Al termine dell’eccidio il genio tedesco fece saltare gli ingressi delle gallerie. I romani non dovevano vedere. Sapere sì, però. Il comunicato stampa diramato dopo il massacro era chiaro: “Il comando tedesco ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”.