80 anni dal raid

Bombardamenti di Roma del 19 luglio 1943, la storia raccontata da Mirella Acconciamessa

Il 19 luglio del 1943 gli americani bombardarono San Lorenzo. Mirella, futura giornalista dell’Unità aveva allora 14 anni: “La pistola, la fame, le bici, i partigiani: ecco i miei ricordi”

Interviste - di Graziella Balestrieri

18 Luglio 2023 alle 15:00 - Ultimo agg. 18 Luglio 2023 alle 15:50

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Bombardamenti di Roma del 19 luglio 1943, la storia raccontata da Mirella Acconciamessa

Il 19 luglio del 1943, in una bella giornata di sole, gli americani bombardarono Roma e il quartiere San Lorenzo fu ridotto in macerie. Ci furono più di mille vittime e da lì iniziò la paura che qualcosa stesse davvero cambiando per una città in guerra sì, ma che dentro casa ancora non aveva subito morti per il fuoco che era nemico allora, ma che dopo paradossalmente sarebbe diventato l’unica salvezza. Tra quelle macerie, in mezzo a quelle strade accecate dalla luce del sole e in un quartiere poco distante, il quartiere Parioli, Mirella Acconciamessa, che dal 1950 fino al 1992 diventerà una delle firme più prestigiose dell’Unità, aveva solo 14 anni.

Il 19 Luglio del 1943 sarà per lei il frastuono degli aerei passare, il non capire quello che stesse accadendo, la paura che non era della morte ma di non arrivare in tempo a sentire la voce della madre per rassicurarla. Un legame fortissimo che non la guerra, non la fame, non la paura di morire sono riuscite a spezzare. Più forte di tutto è l’amore. E allora ecco, a sugellarlo, una corsa senza prendere fiato di un chilometro e duecento metri, che tornerà negli anni a seguire come un sogno e un incubo allo stesso tempo, un chilometro e duecento metri di forza, tenacia e coraggio. «Cosa ti devo dire – esordisce così, piena di emozione Mirella, che oggi ha 94 anni -: la luce somiglia un po’ a quella di oggi, ma il sole era molto più forte. Il cielo però era così, quasi uguale, e poi c’era già questa fame, non proprio come mesi dopo ma già c’era la fame».

Sono passati esattamente ottanta anni da quella giornata che squarciò i cieli e l’anima di Roma. Però in Mirella i ricordi sono ancora chiari, declinati al presente. Basta una finestra illuminata da una bella giornata di sole, quella di oggi 7 Luglio, a spalancare l’orizzonte della memoria. Tanto più che sono le 11 di mattina: esattamente la stessa ora in cui nel 1943 iniziarono i bombardamenti su Roma.

Signora Mirella, dov’era in quel 19 Luglio del 1943?
Avevo 14 anni e abitavo ai Parioli, allora avevo finito la scuola. Mia madre lavorava e lavorava anche mia sorella: aveva sette anni in più di me, e per fortuna aveva trovato un’occupazione al ministero dell’Aviazione. La sede era vicina all’università, a due passi da San Lorenzo. Mia sorella era patita di bicicletta e così anche quella mattina uscì di casa in bici. Quel giorno anche mia madre era andata al lavoro. Mamma aveva una voce meravigliosa ed era una donna incantevole, aveva trovato lavoro come centralinista in un ufficio comunale che stava dalle parti del Colosseo. Io invece avevo finito la scuola ed ero libera per cui uscivo con i miei amici, non avendo nulla da fare. Quel giorno andammo a fare un giro, arrivammo a Piazza Verdi, a lato di via Salaria. Ricordo che eravamo al centro di quella piazza quando a un certo punto suonò l’allarme. Suonava spesso ma nessuno ci faceva molto caso. Però quella mattina insieme all’allarme si incominciarono a sentire gli aerei. Non era mai successo prima. Lasciai tutto, questo me lo ricordo perfettamente, è un ricordo che quasi mi perseguita in un certo qual senso. via di corsa da Piazza Verdi, io abitavo a via Castellini, che è una traversa di Viale Parioli. Una traversa che va su a Piazza delle Muse. Ecco, di corsa ho fatto da Piazza Verdi a Via Castellini, perché, mi dicevo “mia madre adesso mi telefona e se non mi trova a casa si spaventa”. Fu questo pensiero a farmi andare di corsa, e quando finalmente arrivai, il portiere, che era un vecchietto simpatico, mi disse: “Mirella, c’è mamma al telefono”. Mia madre non trovandomi a casa telefonò intelligentemente al portiere e mi disse “non ti muovere da lì, non ti muovere”. Non c’era un rifugio e quindi continuava a dirmi di non muovermi. Mamma acutamente si andò a rifugiare sotto al Colosseo e devo dire che ho trovato questa scelta una delle cose più belle della sua vita. Passavano gli aerei, si sentivano questi rumori infernali, certo. Ma il punto importante per me è quella corsa, quella corsa che io sogno sempre, che immagino e rivivo sempre. L’ho fatta misurare quella corsa, quanto fosse lunga quella distanza: un chilometro e 200 metri. Io ho fatto un chilometro e 200 metri tutta di corsa. E il mio desiderio sarebbe stato poterlo rifare in questi 80 anni. In questi anni sogno solo di poter rifare quella corsa, è il sogno più bello, il ricordo nel cassetto, e anche la paura più grande. Pensa che anche il mio fisioterapista l’altro giorno ha rimisurato quella distanza, e una volta l’ho fatta misurare anche da un taxista. Volevo sapere quanto avevo corso ma senza prendere mai un fiato, senza fermarmi mai … è un sogno? È un desiderio? È la fuga? È la paura? È l’amore per mia madre? È l’amore per mia madre! E questi aerei sopra di me che passavano, perché San Lorenzo è vicina, in linea d’aria non è niente.

E poi che cosa accadde?
Dopo aver rassicurato mia madre iniziò a pesarmi anche il pensiero che mia sorella stava lavorando vicino all’università. Passai queste due o tre ore ore in questo androne di palazzo con tutti gli altri, un po’ lì e un po’ nella casa del portiere. Sola, senza mia madre e mia sorella.

Cosa pensava in quell’androne, in quei momenti?
Il pensiero era a che cosa stesse succedendo. Si sentivano grandi botti, poi si sentiva sparare. Si sentiva “ta- ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta – e io mi chiedevo che cosa fosse questo rumore. Mi spiegarono che quel rumore era la contraerea. Ma dove stava questa contraerea? Non si sa. Quando finirono con il bombardamento, fuori dal portone trovammo dei pezzetti di metallo e io pensavo fossero resti di bombe, invece erano pezzi della contraerea. Chi aveva sparato, da dove non lo so, ma lì a viale Parioli c’erano i pezzi della contraerea. Finito l’allarme, mi ricordo che faceva un grande caldo, proprio come adesso. Mia sorella tornò e lei si era rifugiata lì vicino, a 500 metri da dove avvennero i bombardamenti. Lei era molto più, in questo senso, molto più coinvolta di me. Aveva un carattere molto diverso. Mi disse: “andiamo vedere a Piazza delle Muse che hanno bombardato l’aeroporto”. E lì c’era l’aeroporto dell’Urbe che fumava ma era già tutto finito. Ma c’è anche una nota tragicomica in tutto questo. Allora, con la fame che c’era, chi aveva potuto si era procurato una gallina. Le donne l’avevano sistemata sul terrazzo di casa, per chi ne aveva uno. Noi avevamo un terrazzino che faceva angolo. Mia madre aveva chiuso questo pezzetto e ne aveva fatto una specie di gabbia e dentro ci aveva messo una gallina. Non avevamo però cibo da darle, perché non avevamo da mangiare neanche per noi. E così, come si dice, “la gallina si mangiava il muro” e quando faceva l’uovo se lo mangiava. Se qualche volta con un po’ di fortuna si fosse riusciti a prendere quell’uovo per noi sarebbe stata una festa. La prima domanda che fece mia madre nella seconda telefonata fu: “E la gallina?”. “Mamma, la gallina è viva”, risposi. Per noi era l’unica fonte di cibo allora e nei mesi successivi, quei “famosi” nove mesi dell’occupazione, fu molto molto peggio. Pensa che io bevevo l’acqua dalla fontanella per farmi passare la fame, perché ti riempivi: l’acqua era l’antifame per eccellenza.

Quando parla di sua sorella vengono fuori la sua curiosità e il suo attaccamento alla bici…
Lei voleva andare a vedere, e intanto era arrivata mia madre a piedi dal Colosseo. Camminavamo tutte allora, mia sorella invece usava sempre la bicicletta. Quando i tedeschi ne proibirono l’uso per lei fu un trauma. Ma era una ragazza curiosa e quando arrivarono gli alleati a Roma, il 4/5 Giugno, all’alba mi venne a svegliare urlando. “Mirella, sveglia! Sono arrivati gli alleati, sono arrivati. Andiamo andiamo andiamo a vedere!”. Gli americani lanciavano sigarette e cioccolata a noi che stavamo ai lati. Naturalmente ci andammo con la bicicletta, non l’abbandonava mai. C’è andata per tutta la vita. Non essendoci l’ascensore in casa, se la caricava per quattro piani di scale. Su e giù. Altri tempi, altra tempra… Io quando vedo questi ragazzi di oggi… Mi piacciono ma sembrano tutti un po’ strampalati, pare che abbiano dei problemi, e devi fare la faccia seria per starli a sentire altrimenti un po’ ti viene da ridere. Allora bastava una bicicletta per essere felici.

Siete state a vedere i luoghi del bombardamento?
Andammo a San Lorenzo per vedere che cosa era successo però a un certo punto ci bloccarono all’altezza dell’università, perché era il giorno in cui andò il Papa. E così io tirai per tornare a casa, anche perché io avevo molto buon senso, più buon senso di mia sorella.

Come avete passato la sera, avevate ancora paura?
No, l’episodio si è chiuso andando a letto. Ma nei giorni successivi, quando suonava l’allarme io e mia madre pazientemente scendevamo giù in questo androne, perché mia sorella insisteva che noi andassimo. Lei ha continuato a scendere nell’androne, io e mia madre abbiamo continuato a rimanere nel letto, dormivamo insieme. Ci giravamo dall’altra parte e continuavamo a dormire, tanto che poteva succedere? “Sbracavano” Roma?, come si diceva una volta? Noi non avevamo più paura ormai. Avevamo fame, che è peggio di aver paura. Personalmente la paura non ci ha scosso. Certo i primi giorni… i morti… questo sì. I primi giorni furono un grande dolore, vedere un pezzo della città sventrato fu davvero un grande dolore.

Si ricorda il momento esatto in cui ha iniziato a sentire la fame?
Essendo stata bombardata San Lorenzo e andando io ai Parioli in una scuola nuova, pensarono bene di prendere gli sfollati di San Lorenzo e trasferirli in questa scuola a via Boccioni, piazza del Cile. La mia scuola non era più disponibile e così cominciai ad andare a lezione il pomeriggio, doppio turno, un anno al Giulio Cesare durante l’occupazione tedesca, un anno al Tasso. Quando si faceva a mezzogiorno, calcolando che io dovevo andare a scuola alle 13.30, mia madre prendeva della farina e la setacciava, poi ci metteva un po’ di lievito, prendeva una padella con un pochino di olio e cuoceva una pizzetta. Quando l’impasto faceva delle bolle, mamma ci metteva un po’ di zucchero e io mangiavo questa pizzetta. Finita questa pizzetta, che era piccolina comunque, andavo a scuola. Per qualche giorno mangiai questa pizzetta fatta bene, ma poi successe che a un certo punto non c’era più lo zucchero sopra, poi che non la setacciava più. E alla fine non c’era più neanche il gas e allora noi dovettimo bruciare dei ripiani di legno che tenevamo nello sgabuzzino. Bruciammo pure una sedia di legno , e alla fine bruciammo anche le lettere d’amore di mio padre della prima guerra mondiale , perché mia madre concretamente pensava che ci serviva la carta da bruciare in una specie di secchio per il fuoco. Non c’era più niente, solo fame.

C’erano antifascisti nel suo palazzo?
Ti racconto una cosa che non ho mai raccontato prima. In questo palazzo dove noi abitavamo – si scoprì dopo – tutti quanti avevano qualcuno da nascondere. Una volta entrai in contatto con uno dei ragazzi del famoso muretto, e uno di questi mi disse che aveva bisogno di aiuto: “Mirella devo tenere una pistola ma non posso tenerla in casa, me la puoi tenere tu?”. “Dammi questa pistola!”. gli risposi. Ci demmo appuntamento sul Lungotevere e mi consegnò una beretta. Tenevo la pistola da un lato e il caricatore dall’altro. Calcola che io ero magrissima ma riuscii a nasconderla bene: arrivai a casa e la misi dietro alla poltrona che aveva un incavo, una specie di tasca. Quando questo ragazzo mi chiedeva la pistola io gliela riportavo: sarà successo per due o tre volte. La mettevo in pacchetto con un fiocchetto come se fosse un pacchetto di dolci. Nessuno lo sapeva! Nessuno doveva saperlo. Però sapevo, anche se questo l’ho scoperto dopo, che in questo palazzo c’erano tante persone che si nascondevano, e tra questi c’erano anche i fascisti. Quello che poi divenne mio cognato era nella resistenza romana. Ad un certo punto andarono per arrestarlo. Arrestarono prima il padre, che finì a Regina Coeli, e poi mio marito che all’inizio avevano solo fermato. Dopo due giorni se lo erano ripreso perché – sai – c’erano quelli che tradivano. Mio marito è stato in galera quando faceva il secondo liceo al Tasso. Poi i tedeschi, diciamoci la verità, che erano un po’ pazzi dicevano “ma questo è minorenne, 16 anni, non lo possiamo tenere qui” mentre tutti gli altri giorni gli ripetevano “ti ammazziamo, domani ti ammazziamo”. Poi lo portarono nel carcere minorile e lo tennero lì fino alla liberazione. Questo era mio marito, questi sono stati gli antifascisti romani. La resistenza non era così semplice, era fatta da piccolissimi gruppi, ma così si faceva. C’erano antifascisti ovunque, una cellula comunista alle poste romane, nell’ultimo piano del mio palazzo si riunivano i comunisti cattolici: erano piccoli gruppi ma c’erano, e poi meno sapevano di te e più si poteva fare.

Per lei sembra che la fame sia stata più forte della paura…non c’era niente da mangiare?
Una volta ho fatto delle file interminabili per avere tre cipolle, poi una volta la fila per le rape che io odio, quelle bianche. Ci arrangiavamo con quello che si riusciva a rimediare, mia zia ci dava qualche cosa. Avevo la fortuna che non essendo maggiorenne mi davano 150 grammi di pane, mentre agli altri 100: era un pezzetto di pane duro, fatto con la segale nera. Il giorno che arrivarono gli alleati arrivò la farina, e allora finalmente arrivò il pane bianco: era fatto di farina di riso, bellissimo. Io mi ricordo questo sfilatino bianco mangiato come se fosse un babà. Pensa che quando è scoppiata la guerra io portavo 37 di scarpe, finita la guerra portavo 40, portavo gli zoccoli, perché non avevo le scarpe e allora mi feci degli zoccoli in casa: per tenerli insieme usammo la corda degli apparecchi fotografici. Pensa che ho passato l’inverno del 1948 con un cappotto con un collo di pelliccia, gli zoccoli e i calzini fatti a mano ricavati da un maglione rosso. Quindi avevo dei calzini rossi corti con degli zoccoli, e un cappotto grigio con un collo di pelliccia, una cosa di una bruttezza orrenda. Del resto le altre cose non mi entravano più purtroppo. Ero cresciuta, non c’entravo più nelle mie cose. Mia madre riuscì a trovare scarpe per lei e per mia sorella, ma per me non si trovarono, e prese dopo un modello da maschio.

Prima vi bombardarono e poi vi liberarono. Che rapporto si creò con gli americani?
Gli italiani sono gente che s’aggiusta. La storia con gli americani fu molto bella all’inizio, si creò una grande fratellanza e loro venivano accolti nelle case. Un pomeriggio, – erano passati due o tre giorni da quando erano arrivati gli americani a Roma – mia madre decise che voleva andare a trovare sua sorella a Piazza Cavour. “Andiamo”, mi disse. Erano le 14, pieno giugno a Via Bertoloni, sole caldo, vuoto… io e mia madre eravamo per strada, quando ecco passare una camionetta di americani: si ferma, fa marcia indietro, e vedo quattro neri con una faccia serissima: mentre li guardo sento la mano di mia madre che mi attanaglia. Mi prende per il braccio e intanto vedo arrivare tra i nostri piedi qualche cosa. Poi gli americani sorridono e se ne vanno. C’era per terra, accanto a noi, un pezzo di cioccolata alta, dura, buonissima. Mia madre aveva avuto paura. Sai aveva pensato… una bella donna, una ragazza… alle due del pomeriggio con la strada vuota… si ferma una camionetta… Lei ebbe subito questo moto di paura, io confesso invece che non capii lì per lì. Come che sia, raccolsi questa bella cioccolata e la mangiai fino a Piazza Cavour. Ne portammo anche un pezzetto a mia zia e poi ritornammo a casa. Sempre a piedi. Io mi ricordo la guerra come una cosa fatta a piedi.

E i fascisti come erano?
Sa, tutti erano fascisti! C’erano anche gli antifascisti, certo, ce n’erano parecchi. Ma tutti erano fascisti.

E non avevate paura?
Avevamo paura, certo. Ma non so come spiegarti, c’era quella sensazione che ti faceva pensare “va bene, posso morire, va bene certo” Lo pensavamo, ma c’era la guerra e dovevamo sopravvivere: dovevamo vedere la fine di questa cosa. E poi i fascisti erano dei vigliacchi. Se penso a via Rasella, alle Fosse ardeatine non posso dire che questo: i fascisti erano dei vigliacchi. Via Rasella fu una cosa sconvolgente, la notizia si diffuse subito, e fu più sconvolgente del bombardamento.

Avevate paura di morire di fame?
Per me la guerra è due cose: la fame e i tedeschi che lasciano Roma lungo viale Parioli tra i mezzi meccanici. C’è una cosa che ricordo in particolare: uno di questi soldatini che mi passa accanto appoggiato ad un pezzo di ferro, che a un certo punto lancia quest’arma a terra con una rabbia incredibile. La raccolsi subito: così, senza pensarci. Ricordo anche una signora che a un certo punto iniziò a inveire contro i tedeschi dal primo piano del palazzo accanto. Per fortuna la tirarono subito dentro. Altrimenti, se l’avessero sentita, i tedeschi ci avrebbero ammazzato tutti. C’erano stati degli episodi assurdi, e pensa che sulla stessa strada, con lo stesso sistema sarebbero arrivati gli americani. E tu che volevi fare? Andammo a piazza Ungheria per vederli arrivare da via Salaria, gli italiani sono un giorno così e un giorno diversi, però era la guerra. La gente vendeva l’oro che aveva perché era più importante avere da mangiare, un litro d’olio fasullo costava mille lire. Mi ricordo che andavo a studiare a casa di una mia amica, mia compagna di scuola e lì c’era una famiglia di soldati: si mangiavano le fave, poi le bucce delle fave, ripassate, e non solo quelle dei piselli che erano più saporite ma le bucce delle fave ripassate. Questa era la fame.

Quando sono arrivati i tedeschi se lo ricorda?
I tedeschi c’erano già, non sono arrivati in forze, quello che noi ricordiamo bene è l’uscita dei tedeschi e l’arrivo degli americani. Tra gli italiani e gli americani, l’ho già accennato, si era creata fraternità. Se li sono portati a casa: mio padre, mia sorella, mia madre si portarono a casa degli americani che avevano incontrato per strada. Loro poi venivano sempre a trovarci, chiamavano mia madre “mamma”. Tutti hanno aperto le loro case agli americani.

Tornando alle biciclette…perché furono proibite dai tedeschi?
Perché con le bici si facevano gli attentati.

Ha mai incontrato un nazista?
Pensa che è la prima volta che lo racconto, forse non l’ho raccontato nemmeno a mio marito. Una volta portavo addosso questa pistola di cui parlavamo. Sotto casa trovai un nazista. Era basso, tracagnotto, mi guardava fisso con uno sguardo cattivissimo. Avevo la pistola carica e l’ho guardato per un secondo. Ho pensato: “mo lo ammazzo”. Poi però mi sono ravveduta e ho detto “no, non si può”. Mi sono sempre chiesta cosa ci facesse quel nazista sotto casa mia, cosa e chi cercasse, però ricordo benissimo che pensai “adesso lo ammazzo”. Lasciai perdere. Perché gli avrei dovuto sparare?

C’è un ricordo specifico che la lega a San Lorenzo e al giorno del bombardamento?
Il ristorante di Pomidoro che si trova a San Lorenzo di proprietà di Aldo: è morto da poco tra l’altro. Il padre aveva questa trattoria durante la guerra e quel giorno aveva mandato il figlio in campagna per paura degli allarmi ed era rimasto solo lui insieme alla moglie incinta. Il papà di Aldo era uscito intanto, mentre la moglie incinta si trovava dentro. Una bomba squarciò il muro della cucina e la madre di Aldo e la sua sorellina non ancora nata morirono. Aldo, il figlio che si era salvato,, ogni volta mostrava il muro che era crollato, sotto cui erano morte la madre e la sorellina non ancora nata. Questa è San Lorenzo, come gli era rimasta in mente. Erano passati anni per lui, però ricordava sempre quell’angolo sventrato dalla bomba che aveva ucciso sua madre e sua sorella. Quell’angolo della cucina era la guerra per lui. Sa, gli americani colpirono la chiesa, si sbagliarono… stupidi, incapaci, hanno ammazzato tanta gente, insomma gli americani buoni fino a un certo punto. Però hanno portato il pane bianco e quella era il tempo della la fame.
Quali ricordi ha di quando è finita la guerra?
Mia madre ha preso una bandiera rossa, ne ha tagliato un pezzo, si è messa alla macchina da cucire e mi ha fatto una gonna tutta rossa. La indossai, misi una camicetta bianca, sandaletti rossi e uscii per strada.

Sensazione?
Una bella sensazione…mia sorella ha preso la bicicletta e ha cominciato ad andare in giro con una sua amica. Io invece sono uscita a piedi, una sensazione bellissima.

Com’è diventata giornalista?
In maniera molto buffa. finito il liceo e iniziai a lavorare per un’agenzia di viaggi. Tutto iniziò per caso, ma questa è un’altra storia. Ve la racconto un’altra volta.

18 Luglio 2023

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