Dall'Ucraina alla Palestina
“Netanyahu è superiore a Zelensky, ma sono segni della stessa follia”, parla Giuseppe Vacca
La “bandiera bianca”? «Bergoglio ha detto una cosa di buon senso che aveva già detto Berlusconi. Se quella in Ucraina è una guerra per procura, è persa e non poteva essere altrimenti. Gli ucraini sono carne da macello. Netanyahu? È di un livello superiore a Zelensky, ma sono segni della stessa follia»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La verità di Francesco. Il disordine mondiale e le guerre, dall’Ucraina alla Palestina, passando per i conflitti dimenticati in Africa, che ne sono il frutto avvelenato. Una lezione di storia e di politica. A offrirla ai lettori de l’Unità è Giuseppe Vacca, Professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari, già direttore dell’Istituto Gramsci, più volte parlamentare del Pci. Vacca è uno dei dieci autori di un libro di stringente attualità: I nodi dell’Occidente. Sovranismo individuale. Crisi delle democrazie. Guerra (curato da Massimo De Angelis, edito da Belfiore).
Professor Vacca, le considerazioni di Papa Francesco sulla “bandiera bianca”, in rapporto alla guerra in Ucraina, hanno scatenato polemiche e letture indignate. “I negoziati non sono mai una resa”, ha rimarcato Bergoglio. Per poi aggiungere “E’ il coraggio di non portare un Paese al suicidio”. Che c’è di scandaloso in questo?
Scandaloso è semmai quel mondo dell’informazione militarizzato. E per quanto riguarda la parte di mondo in cui noi viviamo, denominata per comodità “Occidente”, come se di “Occidente” ce ne fosse uno solo, è inchiodata ad una scelta che, per usare le parole sagge di Kissinger, è la demonizzazione dell’avversario. Il che rende impraticabile l’idea di dover, prima o poi, trovare un punto di intesa. È una strategia dettata non solo dalla teoria della guerra inevitabile, ma della guerra come mezzo e come fine, ovvero da una ipotesi, che ha radici strategiche quanto meno nella visione della “grande scacchiera” di Brzezinski, precedente le guerre balcaniche, che ispirò l’azione internazionale dei democratici clintoniani, per cui la Russia rappresenterebbe un pericolo in sé. In questa ottica, quella di non averla fatta a pezzi dopo la fine dell’Unione Sovietica, rappresenta un obiettivo mancato.
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Farla a pezzi? E per farne che?
Dividerla in quattro o cinque stati più piccoli, colonizzabili, soprattutto per appropriarsi delle sue enormi risorse, che né il regime sovietico né quelli successivi, compreso Putin in una certa misura, avevano saputo mettere a frutto per proprio conto, anche dopo l’isolamento della Russia dal mercato internazionale, ma con una ipotesi di accettazione dell’ingresso della Russia nel mercato mondiale ma soltanto nelle condizioni di Eltsin…
Vale a dire?
Secondo la narrazione “occidentale”, in realtà americana e inglese, la Guerra fredda si era conclusa con vincitori e vinti, c’era un solo vincitore che sanciva il passaggio ad un mondo unipolare, in cui l’unico Paese egemonico erano gli Stati Uniti, con gli inglesi, una volta uscita da una Europa che si prospettava a egemonia tedesca, diventati il braccio dell’intelligence dei lavori sporchi internazionali degli Stati Uniti, cosa che sono tuttora. Questa ricostruzione sull’essenza della Guerra fredda e sulle sue conseguenze planetarie è una narrazione di comodo e infondata.
Perché di comodo e perché infondata, professor Vacca?
Per due ragioni, sostanzialmente. Innanzitutto, la Guerra fredda non era una vera guerra. A parte il carattere giornalistico della definizione, la Guerra fredda non è in alcun modo una categoria storiografica. Essa corrispondeva a un equilibrio bipolare costruito sulla reciproca deterrenza nei decenni. Col venir meno dell’Unione Sovietica finiva questo equilibrio bipolare. Ma era pensabile che a un bipolarismo che finiva per non corrispondere più alla struttura del mondo già da tempo, subentrasse una egemonia unipolare? Un unipolarismo sostenuto, in sostanza, dall’assertività signoraggio del dollaro, dalla fine dei cambi fissi, dall’unilateralismo americano in economia e non solo, tutto questo non corrisponde ad una funzione egemonica. Corrisponde ad una funzione di dominio. L’egemonia presuppone una correlazione, in cui l’avversario numero uno è in qualche modo coinvolto e consenziente nel cercare un equilibrio aperto a successive modificazioni, nel quale lo junior partner accetta la condizione di numero due, di subordinato relativo. L’egemonia è una correlazione che consente non soltanto il mutare della forza ma anche la superiorità, reale o fittizia, negli stili di vita, nel soft power, nella capacità di assegnare i ruoli, in cui l’avversario non è più un nemico assoluto, ma ha un ruolo che in qualche modo accetta. È una narrazione assolutamente farlocca quella che ci sia stato un mondo unipolare dopo la fine dell’URSS. Uno, perché la Guerra fredda non era una guerra, in secondo luogo perché non era finita con vincitori e vinti. Era finita con l’implosione dell’Unione Sovietica a cui l’Occidente aveva risposto, già dall’ultimo Gorbaciov, con una pura negatività.
Di quale negatività si è trattato?
Non accettare realmente la possibilità di una riforma del sistema sovietico attraverso un progressivo ingresso dialogico in una economia mondiale nuovamente regolata.
In realtà, ed è una realtà storica che appare sempre più chiara anche per le tante vicende che s’intrecciano e si accavallano, la regolazione bipolare, cioè l’equilibrio mondiale fondato sulla correlazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, era già anacronistico da tempo, forse fin dalla nascita, perché questo è qualcosa che si forma tra il ’45 e il ’49, quando tende a stabilizzarsi con la nascita del Patto atlantico. Nel frattempo, però, la Cina aveva buttato gli occidentali fuori dal suo territorio. Mao Tse-tung è arrivato a Pechino e c’è già questa potenza in embrione di cui si sono sottovalutati a lungo i tempi della progressiva crescita, sino alla formazione di un disegno che è poi diventato, nel 2014, un disegno a due, tra Xi Jinping e Putin, di riorganizzazione dell’ordine mondiale attraverso l’emersione dell’Asia come altro grande polo, sotto la guida cinese-russa ma fortemente concertata con i Paesi che via via vanno entrando nel blocco dei BRICS, anche con il mutare degli equilibri nel mondo arabo che spiegano peraltro come si arrivi alla crisi della strategia d’Israele. Questo è il contesto nel quale nasce la guerra tra Russia e Ucraina, che ormai nella narrazione stessa di Zelensky, è una guerra che comincia nel 2014, di cui lui rivendica il carattere rivoluzionario, partendo dal colpo di stato di Piazza Maidan.
Colpo di stato? E con quale finalità?
Un colpo di stato che fu molto bene architettato per mettere fine alla possibilità che il processo di progressiva autonomia che l’Ucraina stessa aveva conquistato dopo lo scioglimento del blocco sovietico, anche come conseguenza dell’unificazione tedesca -ultimo colpo inflitto all’ordine egemonico occidentale da Gorbaciov, perché avviando l’unificazione tedesca si avviava un processo europeo che fino ad allora non era stato concepibile- potesse sostanziare, rafforzandolo, un mondo policentrico, che pure già esisteva. Un mondo non riconducibile alla semplificazione bipolare che reggeva sulla enorme preponderanza di potere militare degli Stati Uniti, della Russia, e via via di alcuni Paesi europei che si erano dotati dell’arma atomica come la Gran Bretagna, la Francia e se vogliamo guardare in senso più ampio all’Occidente, come Israele. Per tornare al Papa, Bergoglio ha detto una cosa ovvia di assoluto buon senso che non ho problema a ricordarlo, aveva già detto Berlusconi. Se poi di fatto questa è una guerra per procura, ed era una guerra persa, come hanno ammesso autorevoli commentatori anche italiani, come Fubini e persino Mieli. È ovvio che la guerra è persa. Come poteva essere altrimenti, vincere una guerra per procura contro la Russia, che è, se non altro in termini geopolitici il più grande Stato del mondo, oltre che la seconda potenza nucleare, che si è già attrezzata, come del resto gli Stati Uniti e a seguire anche la Cina, alla possibilità di guerre termonucleari con bombe di teatro, si spera delimitabili, essendo ormai venuto meno un sistema di equilibri fondato sulla deterrenza. Il Papa ha detto una cosa sacrosanta, cioè che in una guerra per procura, la principale carne da cannone è il popolo ucraino. E Zelensky è il responsabile di questo.
Un’accusa pesante.
Lo è talmente che non cambia mai il modo di presentarsi e di narrarsi, vestito in panni militari, con l’assurdo che persino la grande accoglienze dei parlamenti occidentali è stata fatta ad un uomo in divisa che alla fine ha rivendicato il merito di averla cominciata la guerra con il colpo di stato di Piazza Maidan che fu ripreso da una equipe di operatori televisivi occidentali, che ha prodotto uno straordinario video, disponibile anche se è stato trasmesso una volta sola, in cui si vede chiaramente come procede questo colpo di stato, con la comparsa di truppe mercenarie di cui era impossibile definire l’identità, con quelli che poi sono gli eredi del pezzo nazista della vecchia Ucraina. E con l’ambasciatore americano che dirigeva strategicamente le operazioni.
Guerra per procura più che mai, e quindi gli ucraini carne da macello più che mai. La ciliegina sulla torta è il decreto emesso da Zelensky per cui nessuno può pensare di interrompere questo ciclo con una disponibilità dell’Ucraina a trattare. Siamo di fronte all’esasperazione della guerra come mezzo e come fine.
A proposito di potenze nucleari europei e dei loro intendimenti bellicisti. “La Russia non può e non deve vincere questa guerra”. E ancora: “Volere la pace non è scegliere la sconfitta”. E poi l’avvertimento all’Europa: “Prepariamoci alla guerra”. Così il presidente francese Emmanuel Macron.
Se intendo bene, la strategia varata negli ultimi due anni dall’amministrazione Biden, è stata quella di una estensione-riconversione della mission della NATO. E nello stesso tempo fare in modo, siccome la guerra è perduta, come documenta abbondantemente il penultimo numero di Limes, che l’impossibilità di darla vinta a Putin, dentro lo scenario di una guerra perduta, possa essere giocata in maniera tale che a uscirne penalizzata, sia l’Europa e non l’intero Occidente, in primis gli Stati Uniti d’America. Da qui uno spostamento preponderante, che però richiede tempi lunghi, del peso della guerra sui Paesi europei, a cominciare dalla fine dell’impedimento dell’armamento tedesco, risultato della fine della Seconda guerra mondiale, la piena autorizzazione alla Germania a riarmarsi e poi vedere se nel contenimento dello “zar” del Cremlino, se non addirittura alla sua comparsa di fronte a tribunali internazionali per rispondere di crimini di guerra, o in qualunque altro modo, più realistico, vada a finire questa guerra, ne risponda l’Europa e non ne sia direttamente investita l’America, visto che i policy maker della strategia mondiale degli Stati Uniti puntano a un nuovo bipolarismo che sarebbe fatto per semplificazioni, in questo caso la devastazione della Russia, l’irrilevanza dell’Europa ormai sospesa, e chissà quando e se riprenderà un processo europeo effettuale che non sia sotto le compatibilità dell’amministrazione americana del tempo. Un bipolarismo con la Cina. Ma anche questa è una falsa narrazione.
Perché, professor Vacca?
Siamo dentro alla prima, effettiva, grande guerra mondiale, che coinvolge tutto il mondo e dove pesa anche la minaccia nucleare, che si è sdoganata e resa possibile. In questo scenario, che è già oltre quella “guerra mondiale a pezzi”, della quale Papa Francesco parlava, a ragione, come è pensabile pensare a un nuovo bipolarismo? Finito il bipolarismo della Guerra fredda, declinare un ordine bipolare i cui due poli sono gli Stati Uniti e la Cina. Ma la Cina non opera più da sola. Un mondo segnato dalla diffusione di guerre che sono sempre meno locali ma variamente convergenti in schieramenti generali, non lo si può più leggere con le lenti di un ordine geopolitico fondato sui singoli Stati. Le decisioni strategiche di Putin sono tutte interamente concordate con Xi Jinping e viceversa. Non perché non ci siano anche divergenze d’interessi fra la Cina di Xi Jinping e la Russia di Putin, ma perché, dopo il tentativo di fare fuori la Russia dopo il 2008, buttandole addosso una crisi finanziaria devastante, la Cina l’ha salvata e così è nato un soggetto “a due teste”, fortemente solidale nel gestire una straordinaria strategia di crescita del peso mondiale dei BRICS, di accelerare la possibilità di crescita della Cina, conquistandole anche nuove via di accesso al Mediterraneo in funzione antiamericana, cosa che già la nuova guerra di Crimea ha raggiunto, con l’accesso diretto di Putin attraverso il Mar d’Azov, un accesso che è anche per la Cina e per le vie della Seta, e che contrariamente ad ogni calcolo dei policy maker americani e inglesi, è arrivata a questa incidenza sull’economia mondiale già da sette-otto anni, mentre costoro, dall’altra parte dell’Atlantico, pensavano che prima del 2030 non sarebbe stato possibile. In questa situazione, non esiste una possibilità di uscita che non sia una trattativa. E quando Papa Francesco dice che negoziare è saggezza, in quanto riassunzione della responsabilità della vita e delle sorti del proprio popolo, evoca anche alcuni precedenti storici a noi ben noti.
Un esempio?
Beh, senza una strategia del genere, orchestrata tra il Vaticano, gli Stati Uniti di Roosevelt e Casa Savoia per accelerare la fine di Mussolini e far uscire l’Italia dalla situazione in cui era attraverso un armistizio separato e poi un mutamento di fronte, se si vuole è un paragone molto calzante per capire qualche precedente a cui può essere comparata la suggestione del Pontefice. Se e quando si concluderà questa guerra, noi ci troveremo di fronte a un nuovo ordine mondiale. Il rapporto tra USA ed Europa non sarà più quello che era stato, non so se sarà migliore o peggiore. Il rapporto tra l’Europa e la Russia chissà quale sarà. Che cosa sarà la Germania, una volta indotta ad assumere un’altra prospettiva, non solo politica ed economica ma anche militare, di costruzione della leadership di un processo europeo. Un esercito europeo comune di difesa sì o no, dentro la NATO e come, cosa sarà la NATO…Quella di Ucraina è una guerra “costituente”, almeno quanto lo è stata, anche se in modi molto diversi, la Seconda guerra mondiale, nel senso che i principali contendenti hanno in testa diverse soluzioni di un ordine mondiale fondato su nuovi equilibri. Si tratta di capire quali siano le prospettive più realistiche. Non mi pare siano quelle occidentali. Quanto poi alle sortite di Macron, l’inquilino dell’Eliseo si guarda bene ad accennare alla messa a disposizione dell’Europa degli armamenti francesi, a cominciare da quelli atomici, che lui gioca in termini nazionalistici, anche per note vicende interne e in prospettiva elettorale.
Dall’Ucraina alla Palestina. Il disordine globale si fa guerra.
Anche lì c’è, a mio avviso, un enorme errore di valutazione. Che non nasce adesso. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha tragicamente infranto il mito dell’invincibilità d’Israele. Ma ciò che è poco credibile, al di là di certa enfasi giornalistica, è una declamata frizione se non rottura tra gli Stati Uniti di Biden e il governo di Netanyahu. A meno che non s’intenda come “frizione” chiedere, inascoltati, un freno alla colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi. Netanyahu è al potere da quindici anni e non ha fatto che questo. Tutta la Cisgiordania è stata trasformata di fatto in un enorme insediamento israeliano. E si tratta, a ben vedere, di una guerra permanente tra due soggetti che si disconoscono reciprocamente, perché uno non riconosce il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele e gli israeliani non riconoscono il diritto dei palestinesi a uno Stato. C’è questa incredibile sceneggiata, per cui gli americani sembrano darsi da fare, alzare la voce, mentre continuano a riarmare Israele e a tenerlo in vita nella versione di questo governo guidato da Netanyahu, e Netanyahu che risponde picche a ogni larvata richiesta di moderazione.
D’altro canto, chi ce l’ha messo lì Netanyahu? Netanyahu non è un leader locale. È uno dei grandi strateghi della destra mondiale. Uno dei maggiori teorici della strategia della rivoluzione neoconservatrice, che risale a venti trent’anni fa, in termini di rapporto tra politica e guerra, tra strategia politica e strategia militare. C’è un bel libro di Fabio Nicolucci, uscito qualche anno fa in Italia, che è anche una sintesi, ottimamente raccontata, del pensiero strategico di Netanyahu.
Con quale visione?
La sua prospettiva è quella di una guerra permanente, devastatrice della possibilità stessa di una soluzione della questione palestinese. Anche qui, in attesa di qualcosa. In attesa di un ordine mondiale che cambi, ma con la vittoria di chi? In Medioriente, come pure sul versante della guerra in Ucraina, non c’è un grande respiro strategico, perché comunque in questo processo, ormai non breve, di emersione dell’Asia, c’è un enorme rimescolamento di tutto il mondo arabo, del mondo musulmano, con l’asse russo-cinese alla guida di tutto questo. La sicurezza d’Israele può essere garantita solo da un equilibrio internazionale, nella misura in cui la Guerra fredda è stata un equilibrio. Perdipiù in un mondo nel quale geopoliticamente lo Stato d’Israele sta in Asia. Se di Zelensky abbiamo detto, di Netanyahu si può dire che certo è di un livello ben superiore a quello del presidente ucraino, ma sono segni della stessa follia.
In questo scenario che dire movimentato è poco, esiste un pensiero, un’azione, della sinistra europea? O è il vuoto?
Buona la seconda. La questione non nasce oggi. Nasce da un deficit di strategia globale della socialdemocrazia, che poi è il grosso della sinistra europea. E nasce dalla storia del processo di unificazione europea che è rimasta nei limiti delle compatibilità tra Berlino e Washington. Quando Biden ha fatto questa scelta, sull’Ucraina e oltre, il processo europeo, almeno nelle vecchie modalità dell’Europa di Maastricht, è sospeso.
Questo vuoto è colmabile?
Prima delle elezioni americane è difficile chiedere una risposta di un “second best” alla socialdemocrazia europea. Per ora non mostra di avercelo.