Il racconto dalla nave
Così abbiamo strappato al mare e ai libici altri 227 disperati, ma per Roma sono degli invasori
Ci imbattiamo in un gommone pieno zeppo: ci sono 88 persone, 24 sono bimbi. Alzano le mani, piangono e salutano. Hanno la pelle bruciata dal sole e dal carburante. Li trasciniamo a bordo appena prima che i miliziani libici possano catturarli e portarli nei lager
Cronaca - di Angela Nocioni
Seduto accanto alla mamma vede il bordo verde del gommone, il verde si alza e si abbassa sulle onde. Stira il collo verso l’alto, per guardare. Ovunque giri lo sguardo vede il mare. Un mare che non finisce mai. Sempre tutto uguale.
Da tante ore è tutto uguale. Cambiano solo i colori, dell’acqua, del cielo, del giorno e della notte. Il giorno abbaglia, affatica. La notte gela, spaventa. All’orizzonte spunta una cosa rossa. Una nave. Avvicinandosi il rosso diventa sempre più grande.
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Dal radar del ponte di comando si vede un tassello in mezzo al mare. Binocoli: un cespuglio di teste nere con uno pneumatico issato su un bastone, non si vede il colore: “rubber boat” stracarica con persone a cavalcioni sui tubolari, il passaggio che costa meno, il biglietto di terza classe della traversata dalla Libia alla Sicilia.
Allarme via radio: “Ready for rescue, ready for rescue” la voce dal ponte di comando, “pronti al soccorso”. Tre minuti e i soccorritori sono seduti sui gommoni, retti da un cavo di ferro, a 4 metri dal mare fuori dallo scafo della nave.
Battute dell’equipaggio sospeso per aria. – Cosa aspettiamo? – Che l’Italia ci autorizzi a non lasciare morire persone in mare. – E se ci non autorizza ci andiamo a preparare un caffè mentre affogano? “Ok, let’s go” via radio. Il pilota parte veloce sulle onde basse. Sono le nove di mattina, il mare è calmo.
Eccoli. Gambe nere penzolanti, una selva di mani alzate, bambini piccoli stretti a prua: sono 24 bambini. Il gommone è verde ma il verde non si vede, è lungo 8 metri e loro sono 88. Forte odore di benzina. Ci avviciniamo piano, si alzano in piedi: “No, giù”.
Nessuno si siede. Un uomo saluta il cielo e piange. Una ragazza con una bambina piccolissima la alza sulle braccia, ha una felpa chiara, grida per mostrarcela in alto tra le sue mani sopra alle teste degli altri. Avrà 10 mesi.
Vedere un naufrago tra le onde è un’allucinazione, un’immagine a tentoni, una visione a metà, qualcosa che non può essere, che il cervello si rifiuta di elaborare. C’è un tempo di reazione, un lungo istante di irrealtà.
Un interprete è già in piedi a prua: “Non saltate”. Quelli a cavalcioni si sporgono con le braccia in acqua come per lanciarsi verso di noi. Altri si muovono con più prudenza, ma sempre in piedi, instancabili, come se la vista dello scafo li caricasse di una energia inesauribile. Una donna a prua piange, stringe un fagottino coperto con una sciarpa a righe, lo bacia sulla fronte e piange.
Passiamo giubbotti di salvataggio. Una selva di mani tese. Una ragazza nascosta da un cappuccio viola ha un bambino piccolo in mano, non parla, nessuno le passa i salvagente.
Un urlo dell’interprete “dallo a lei o ce ne andiamo”. Un giubbotto a lei, uno piccolo al bambino. Gli occhi le si accendono di gioia, di una gratitudine che ferisce.
Uno a uno, sorretti da un ragazzo algerino e da un francese saltano dal loro gommone al nostro. Non riescono a fare lo scalino, cadono tutti di spalle tranne i bambini, li spingo a poppa. Puzzano di carburante, i più piccoli hanno il viso pieno di sale, sono fradici.
Voce via radio dal ponte di comando “Visitors are coming in 3 minuts”. La guardia libica a tre minuti di distanza. Non bastano tre minuti per far saltare 80 persone una a una. Ci accostiamo, i soccorritori trascinano di peso i più grossi nel tender vuoto allacciato al nostro. “Visitors are coming in 2 minuts”.
Quando la motovedetta della Guardia costiera libica arriva, i naufraghi sono tutti dentro i nostri gommoni ma ancora lontano dalla Ocean Viking, che ferma laggiù aspetta.
Tengo stretto un bambino piccolissimo senza salvagente che si divincola, piange, chiama: “maman maman”. La mamma sta oltre trenta teste, non glielo posso passare. Due più grandi ubbidientissimi restano immobili, afferrati con una mano alla cima nera fuori bordo. Quello col cappuccio blu trema.
“No foto, no cellulari”. Ai miliziani non piace essere fotografati. Non succede nulla, la motovedetta non spara, non gira intorno ai tender, non si mette in mezzo tra i tender carichi di naufraghi e la nave, ci punta con la prua, si avvicina ma non crea incidenti. Fa un giro largo intorno e se ne va.
Sul ponte di coperta della Ocean Viking, due ore dopo, Mohammed, 5 anni, si tira l’elastico dei pantaloni, non sa come chiedere. Lo accompagno davanti alla porta dei bagni di coperta, mi fa cenno spaventato di seguirlo a poppa.
Con la mano indica una macchiolina grigia piccola sul filo dell’orizzonte: “Madame, la gard”. Riconosce il profilo delle motovedette libiche, ha paura che tornino a prenderlo.
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Cielo stellato, un filo di luna arancio bassa sull’orizzonte, il buio interrotto da una lunga fila di luci. Sono barche di pescatori, in fila sembrano una città costiera illuminata.
Nel nero del mare compare una barchetta che sembra di carta. Solo teste fitte fitte, corpi che sporgono da ogni lato dello scafo e si reggono con una catena di braccia infilate nell’arancio fluorescente dei giubbotti galleggianti.
Sono 114 persone, 112 adulti e due bambini, uno piccolissimo, in uno scafo di legno lungo 7 metri. È un double deck, una barchetta a doppio strato fatta di pallet, sotto coperta i più poveri.
Sono afghani, siriani, pakistani. Sono pieni di pacchi e pacchetti, borse e zainetti. C’è un siriano bianco, occhi verdi, faccia medioevale. Una donna anziana con un lungo velo nero fradicio di carburante e acqua salata ha perso in mare una borsa blu.
Con i documenti. Il pilota la tira su col mezzo marinaio prima che affondi. Sorridono, portano la mano sul cuore. Un afghano, magro magro, prega.
Sono tutti disidratati, intossicati di carburante, non ci sono emergenze. La Golden hour questa volta dura poco. L’Ora d’oro è sulla Ocean Viking la grande bolla di protezione che si chiude attorno ai naufraghi appena salvati e portati a bordo perché lentamente riemergano, perché si rendano conto di essere vivi, in salvo.
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L’atmosfera in coperta la mattina dopo è quasi allegra. I più giovani fumano a poppa, sono felici di farsi la doccia, si scattano fotografie col cellulare. Il container d’argento, il più piccolo, rimane socchiuso.
Lì stanno i 23 ragazzini soccorsi mercoledì mattina, dopo dieci giorni in balia delle onde, forse sette, non ricordano. Erano cento, hanno visto morire uno a uno chi la madre, chi il fratello, hanno vegliato i cadaveri e li hanno dovuti lanciare in mare.
Sono sotto choc, rintanati in uno stato di irrealtà. “Un altro giorno alla deriva e sarebbero morti anche loro”. Uno di dodici anni continua a chiedere dov’è sua sorella, dice che era accanto a lui e non la trova. Un uomo del Senegal viaggiava con il figlio di un anno e la moglie. “Stavamo da due anni in Libia. Sono partito con loro. Lui è morto il primo giorno senza acqua, lei quattro giorni dopo”, dice.
Uno dei medici: “Hanno bevuto solo sorsi di acqua salata e non mangiavano da più di una settimana”. Il mare l’aveva quasi uccisi, era un’acqua verde spessa ormai come vernice dentro gli occhi, nei polmoni.
Dodici di loro sono adolescenti, hanno visto un elicottero volare per giorni sulle loro teste e guardarli morire, uno a uno, dall’alto. Non c’erano navi di soccorso a salvarli perché un decreto incostituzionale del governo italiano – della cui illegittimità si è accennato a discutere ieri al tribunale di Bari in un’udienza di un processo contro la Ocean Viking – sequestra per venti giorni la nave delle ong che non lascia deportare i naufraghi in Libia.
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Nel piccolo container d’argento l’unico ragazzino non nascosto sotto la coperta si alza solo per pregare. Ha lo sguardo interamente triste. C’è la tua mamma? “No”. C’è tuo padre? “No”. Sei partito da solo? “Sì”. Non c’è qui un tuo amico? “È morto”.
Nella barca? “No, in Libia. Nella barca dopo, tanti tanti, tanti, tutti morti, piccoli, morti”. Nessuna nave li ha visti, nessuno li ha salvati. Niente croci. Non sono morti in pace. Sono morti implorando un aiuto che non gli abbiamo dato.