Il reportage dalla nave
A bordo della Ocean Viking, quando li salvi ti chiedono: “Sono ancora vivo?”
Per domani al Tribunale civile di Brindisi è fissata l’udienza di primo grado del processo di merito sull’ultimo fermo amministrativo della Ocean viking la cui efficacia è stata sospesa il 20 febbraio dopo un ricorso in cui l’Sos Mediterranèe ha chiesto che venisse annullato il provvedimento
Cronaca - di Angela Nocioni

Tutt’intorno solo il nero di una notte senza luna. Soffia vento forte da ovest, onde di acqua gelida spazzano il legno scuro della coperta.
Quando sorge il sole, la Ocean Viking è già sotto Malta, diretta a sud.
Aggrappate al ferro bianco del ponte di comando, mani veloci si passano i binocoli. Gli occhi spazzano palmo a palmo l’acqua tra le onde in cerca di naufraghi. I 24 ragazzi dell’equipaggio si danno il turno per scandagliare l’orizzonte.
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Ci sono marinai della Bretagna e della Normandia. Un soccorritore è di Napoli, uno di Venezia. Li riconosci quando si muovono. Come gatti. Con un balzo sono dalla scala al ponte, dal ponte ai gommoni. Qualcuno lavorava in navi commerciali, qualcuno no.
Ci sono medici specialisti dell’emergenza, francesi e del Galles, tutte donne. Qualcuna viene da Medici senza frontiere, qualcuna no, il capo sembra fuggita da una copertina di Vogue, pelle bianchissima, viso perfetto, ti chiedi perché stia qui e non a Hollywood. Lei dice che in Siria e in Iraq a volte è stato un problema: “Troppo diversa dagli altri”.
Qualcuno viene dalla scuola Bioforce di Parigi, la scuola delle specializzazioni umanitarie, qualcuno dal molo di Marsiglia. Ci sono uno svedese, un fiorentino, un algerino, un sudanese. Una mescolanza di mondo marinaio e mondo degli aiuti internazionali.
Ci sono gli interpreti, i mediatori culturali. Durante i salvataggi sono loro i primi a parlare ai naufraghi. Uno sta in piedi sulla prua del gommone e dice: siamo una nave di soccorso europea, vi veniamo a soccorrere. Abbiamo quattro regole, state seduti, non gridate, ascoltate e aiutateci a salvarvi.
“E’ successo di dover dire non siamo i libici, perché nella notte c’era il terrore nel barchino e si volevano buttare in acqua” raccontano. L’alto mare è un posto in cui il quotidiano comincia ad essere strano.
Il tempo si dilata, appena il corpo si abitua al rollio arriva la simulazione di allarme e di gran corsa bisogna arrivare sovracoperta con il casco e gli stivali: prepararsi a scendere in mare è affacciarsi a un abisso, tra la paralisi e il salto.
Tutti vivono dentro un metodo. Sveglia all’alba. Colazione dopo la crew addetta alle macchine. Riunione dell’equipaggio con la capomissione, torinese. Poi sparpagliati da prua a poppa a preparare il container del pronto soccorso, il palloni di ventilazione, i giubbotti, i gommoni.
Questa nave di ferro rossa uscita da un cantiere di Brevnik, in Norvegia, quasi 40 anni fa – insieme all’altra che l’ha preceduta, la Aquarius, una vecchia guardapesca che reggeva bene le onde alte – dalla prima missione nel 2016 a oggi ha salvato 39767 persone, più o meno la popolazione di Alghero. Tra questi 39767, ci sono 1762 minori e 5739 donne.
Per domani al Tribunale civile di Brindisi è fissata l’udienza di primo grado del processo di merito sull’ultimo fermo amministrativo della Ocean viking la cui efficacia è stata sospesa il 20 febbraio dopo un ricorso in cui l’Sos Mediterranèe, la ong responsabile della nave, ha chiesto che venisse annullato il provvedimento di fermo, o comunque dichiarato illegittimo e in subordine che venisse sollevata la questione di legittimità costituzionale della norma in base alla quale è stato comminato il fermo.
E qui cominciano i guai perché: come glielo spieghi a uno svedese il ministro Piantedosi? E Giorgia Meloni, e il ‘daremo la caccia ai trafficanti su tutto il globo terracqueo’ e la guerra di propaganda per i voti a destra alle europee sulla pelle dei naufraghi? Come glieli racconti allo svedese Cutro e il caicco lasciato schiantare a pochi metri dalla riva col suo carico di bambini nella stiva?
Quelli che parlano di taxi del mare lo fanno perché non hanno mai messo piede qui dentro, né gli interessa. A bordo ci sono ragazzi che in equilibrio tra tanti mondi hanno deciso di stare in mare e nel mare hanno una specializzazione preziosa, salvare naufraghi.
Da quando il Mediterraneo è un cimitero, le navi di soccorso come questa fanno quello che l’Europa faceva con la missione Mare nostrum e ora non fa più.
A chi parla arabo chiedo cosa dicono le persone appena tirate su dall’acqua. “Sono in un’altra dimensione, stanno sorprendendosi di essere vive, di solito non parlano, i primi a tornare alla vita sono i bambini, corrono, ridono. Gli adulti, dipende. Qualcuno sviene, qualcuno piange, qualcuno grida, qualcuno prega”.
Cosa dicono quando scendono: “La frase più frequente, quella che ho sentito più volte, è ‘restate in mare, tante persone stanno affogando, restate in mare’. Un ragazzo siriano che è rimasto attaccato a un pezzo di legno galleggiante per quattro giorni mi ha raccontato di aver visto navi passare che hanno fatto finta di non vedere. Di aver visto persone che si lasciavano cadere, non ne potevano più di resistere, si abbandonavano alla morte. E di aver pensato di essere già morto. Di aver intravisto sua madre che camminava sulle onde e non poteva essere. E di aver avuto la sensazione di essere ormai da un’altra parte. Poi è arrivata una nave tunisina, li ha riportati indietro, l’hanno buttato nel deserto, poi è arrivato in Libia, lì è riuscito a capire a chi rivolgersi per riprovarci e al secondo tentativo ce l’ha fatta, è stato salvato”.
A bordo c’è un tabù, una tragedia di cui chi c’era non parla volentieri. E’ stata nell’aprile del 2021. “Era la mia prima missione, arriva la segnalazione di una imbarcazione molto precaria con forse 130 persone a bordo. C’era mare grosso. Era molto distante.
Cambiamo direzione. Ci dicono dal ponte di comando che saranno 9 ore di navigazione, saltavamo su onde di cinque, sei metri. Se in una nave di 60 metri saltiamo così, il cielo solo sa cosa succede a una barchetta alla deriva. Ricordo il profilo di una nave commerciale e hanno detto dal ponte di comando che ci avvisava: stiamo tra cadaveri che galleggiano.
Tutto era morte. L’odore della morte lo percepisci, l’anima lo sente. Ormai erano solo corpi. Donne, bambini a galla. A un certo punto non ce l’ho fatta più, sono venuto a poppa. Mi sono riaffacciato, davanti a me nell’acqua un ragazzo appeso al suo giubbotto con la testa e le braccia penzolanti.
Uno dei cadaveri sembrava un sub, si erano imbarcati in un pezzo di legno coperto con la plastica e dei tubi galleggianti ai lati, e lui si era preparato forse a stare in acqua. Siamo rimasti ad aspettare che venissero i libici a recuperare i corpi, li ho chiamati io, sono salito sul ponte, gli ho parlato nella loro lingua. Gli abbiamo dato la posizione esatta, gli abbiamo detto quanti cadaveri, abbiamo chiesto che venissero a prenderli per favore, per dare degna sepoltura.
Sì, sì, ora veniamo ora veniamo, hanno detto. Chiamati e richiamati. E non è venuto nessuno. Abbiamo aspettato lì con la prua attorniata da cadaveri per un giorno intero. Dopo il tramonto abbiamo detto: andiamo a salvare i vivi e siamo andati via anche noi”.