La festa dell'8 marzo
Intervista a Ida Dominijanni: “Ecco perché Meloni e von der Leyen sono nemiche delle donne”
Ida Dominijanni: “È un 8 marzo diverso: non è solo l’occasione per ricordare i femminicidi, ma anche e soprattutto i conflitti in corso che sono il culmine della violenza patriarcale abbracciata da Meloni e von der Leyen”
Interviste - di Graziella Balestrieri
Questo forse è un 8 marzo diverso, almeno questa è la speranza, un 8 marzo più carico di consapevolezza di quello che stiamo vivendo. Diverso per via degli innumerevoli femminicidi che continuano anche dopo lo shock per la morte di Giulia Cecchettin, ma diverso anche per dove stiamo andando e dove ci sta portando una classe politica europea che progetta un’Europa sempre più armata.
Ida Dominijanni, giornalista e filosofa femminista, rifiuta in maniera categorica questo orizzonte di guerra e distruzione, “è una bestemmia che l’Europa si debba armare ancora di più, ed è una bestemmia dentro la bestemmia paragonare un fondo per le armi a quello che è stato il fondo comune per i vaccini”.
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E allora bisogna fare guerra alla guerra, attraverso pratiche di pace però. Ridare importanza alla parola e al dialogo, discutere di queste guerre, di dove ci stanno portando, di quanto stiano sconvolgendo le nostre vite quotidiane, di come ci stiamo assuefacendo a queste pratiche dell’odio e ci stiamo abituando a vivere nell’orrore.
Cosa dobbiamo aspettarci da questo 8 marzo? Ormai sembra diventata una data di “rito” dove tutti si ricordano delle donne ma il giorno dopo siamo punto e a capo.
Che l’8 marzo rischi di diventare un rituale mainstream è vero purtroppo da tanti anni. Diciamo che ci sono tanti 8 marzo. C’è un 8 marzo neoliberale, che festeggia “le donne che ce la fanno” a rompere il tetto di cristallo, magari a spese di altre, e si accontenta di contare posti e avanzamenti di carriera ottenuti dalle donne. C’è – ahinoi – un 8 marzo sovranista, che incita le donne all’orgoglio materno, purché i figli li facciano patriotticamente con i nativi italiani e senza contaminarsi con il sangue degli “stranieri” che ci invadono. Ma quello che dà il segno all’8 marzo è pur sempre il movimento femminista, che mantiene il suo progetto sovversivo di trasformazione radicale della società e della politica, e lo rilancia di generazione in generazione attraversato da sane e creative differenze interne. Certamente quest’anno sarà un 8 marzo segnato dal dolore e dall’esterrefazione per i femminicidi che continuano anche dopo e malgrado la presa di coscienza collettiva provocata dal caso Cecchettin. Ma proprio se vogliamo continuare a ragionare di violenza maschile sulle donne, e del contesto politico e geopolitico che in qualche modo la legittima e la autorizza, l’8 marzo di quest’anno dovrebbe essere dedicato alla guerra. A come fare la guerra alla guerra. Perché se i femminicidi sono un indice del tentativo di revanche patriarcale sulla libertà femminile, della violenza patriarcale la guerra è da sempre l’espressione massima. E oggi, queste guerre che cominciano ma non finiscono, che non approdano alla pace e a un dopoguerra ma si protraggono senza fini e senza strategia, sono un indice della crisi e dell’impotenza del patriarcato.
“Fare guerra alla guerra” è un’espressione molto forte…
Si, fare guerra alla guerra. Con pratiche di conflitto pacifiche, com’è sempre stata la politica femminista, conflittuale e pacifica. Ci vogliono pratiche di pace, e in primo luogo pratiche di parola, perché uno degli effetti più insopportabili di questo progressivo scivolamento in un regime di guerra è la militarizzazione del dibattito pubblico, la polarizzazione delle posizioni, l’impossibilità di discutere a fondo di queste guerre, di che cosa le ha causate e di come se ne può uscire, senza essere immediatamente arruolate ad uno degli eserciti in campo. Questo è insopportabile da un punto di vista democratico, e da un punto di vista femminista è insopportabile due volte, perché il femminismo è fondamentalmente una pratica di parola, di presa di parola a partire dal rapporto tra vita quotidiana e vita pubblica, e mai come in questo momento abbiamo bisogno di ragionare su come queste guerre stanno colpendo la nostra vita personale e la nostra vita quotidiana, tutte attraversate dall’incombenza incubotica di queste guerre a nord e a sud dell’Italia, un’incombenza incubotica che da due anni a questa parte attraversa il giorno e la notte e invece di placarsi si fa sempre più pesante. È incredibile come l’opinione pubblica europea, malgrado il passato da cui proveniamo, stia rischiando di assuefarsi a questo clima rimanendo inerte di fronte a una classe dirigente che invece di frenare spinge sull’acceleratore.
Le parole della presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen che ha esortato a spendere di più e meglio per gli armamenti, addirittura “fare come con i vaccini” …
Le parole di von der Leyen mi sono suonate come una doppia bestemmia: è una bestemmia che l’Europa si debba armare ancora di più, ed è una bestemmia dentro la bestemmia paragonare un fondo per le armi a quello che è stato il fondo comune per i vaccini. Perché i vaccini erano un indice di una solidarietà basata sulla comune vulnerabilità e sulla cura, le armi sono un indice di una società che è o si appresta ad essere perennemente in guerra, o che comunque inserisce la guerra nel proprio orizzonte di possibilità. “La guerra non è imminente ma non è impossibile”, ha detto von der Leyen, il che tradotto significa che è probabile. So bene che c’è chi, a sinistra, interpreta questa posizione di von der Leyen come un gesto di emancipazione dall’ombrello protettivo americano. Ma emanciparsi dal protettorato americano dovrebbe significare costruire l’Unione europea come un modello di coesistenza pacifica, non imitare il modello americano raddoppiandolo. È inquietante che a fare questa proposta sia una donna, così come lo è la nostra presidente del Consiglio che giusto due giorni fa, non so a che proposito, ha rivendicato di essere una che non esita “a mettersi l’elmetto in testa”. Sono segnali di un allineamento anche femminile alla logica maschile della guerra, dalla quale le donne sono state storicamente estranee, dato che le guerre le abbiamo sempre subìte ma non siamo mai state noi a dichiararle. Quando dico che bisogna dichiarare guerra alla guerra, intendo dire anche che bisogna fare un taglio esplicito da queste donne, sottrarre loro qualunque sconto o qualunque solidarietà basati sull’appartenenza di genere.
La sinistra invece come si sta muovendo?
Penso che a sinistra, e soprattutto nel Pd, ci sia un inquietante e colpevole deficit di analisi sulla genesi delle guerre in corso e su quello che poco fa ho chiamato volutamente il “regime di guerra” in cui rischiamo di scivolare. Il Pd è un partito con un’identità debole, ma tutta improntata da una certa lettura del 1989 e del 1991, senza mettere in discussione la quale è difficile capire quello che sta succedendo sul versante orientale dell’Europa. A questo si aggiunge, sul fronte mediorientale, l’abbandono in nome dell’occidentalismo di quella sensibilità verso il mondo arabo che ha caratterizzato a lungo la politica estera italiana, non solo quella della sinistra ma anche quella democristiana. Va dato merito a Elly Schlein di avere corretto il tiro rispetto al suo predecessore, ma sul piano dell’analisi non ci siamo ancora, né su quello della prospettiva. C’è troppa reticenza, in tutta la classe dirigente europea, su dove ci sta portando questa logica belligerante. Non vedo nessun segnale di sapienza politica, nessuno sbocco se non il proposito di armarsi fino ai denti. Non vedo nessun disegno strategico, che invece dovremmo pretendere come opinione pubblica dalle classi dirigenti.
Come facciamo a pretendere questo, con quali strumenti?
Queste guerre sono tutte figlie di un’epoca senza politica, in cui la politica non sa che cosa dire né cosa fare, ed è evidente che c’è una difficoltà di organizzazione politica anche nell’area pacifista. Dobbiamo per l’appunto reagire a questa deriva verso un mondo che non abbiamo mai conosciuto dopo la Seconda guerra mondiale, un mondo che si riorganizza a partire esclusivamente da criteri sicuritari, difensivi e aggressivi.
La guerra, gli stupri, Hamas e gli stupri di guerra del 7 Ottobre…
Gli stupri di guerra sono inerenti alla logica della guerra. Non esiste una guerra senza stupri etnici, cioè senza che gli eserciti composti da maschi provino a mettere un’impronta proprietaria e patriottica sulla generatività delle donne del nemico. Questo è orribile e accade sempre, in tutte le guerre. Non lo dico, sia chiaro, per abbassare l’enorme gravità di quello che è successo il 7 Ottobre, però non voglio neanche che gli stupri del 7 ottobre servano ad abbassare l’enorme gravità di quello che sta succedendo a Gaza. Sono due gradazioni dell’orrore che mi rifiuto di comparare e mi rifiuto di usare l’una per derubricare l’altra. Purtroppo, i tempi ci obbligano a guardare in faccia orrori che si manifestano in contemporanea, tutti di abissale gravità.
In Francia il diritto (la libertà) all’aborto che entra nella Costituzione. In in Italia a che punto siamo?
In Italia c’è un fronte di destra, una nuova destra tradizionalista con velleità di ripristino dell’ordine patriarcale e alleata di un più antico settore tradizionalista cattolico, che tenta di rendere sempre più difficile l’applicazione della 194. Il gesto di Macron a me è sembrato in primo luogo un gesto di sfida agli Stati Uniti di Trump da una parte e ai paesi europei sovranisti dall’altra, il fronte transnazionale che attenta alla libertà procreativa delle donne: una sorta di rivendicazione e riappropriazione della bandiera della libertà nella culla rivoluzionaria francese… La formulazione della riforma – “la legge determina le condizioni in cui si esercita la libertà garantita alla donna di far ricorso ad un’interruzione volontaria della gravidanza” – non parla, per l’esattezza di un diritto, ma di una libertà. Anche se personalmente avrei preferito che facesse riferimento alla libertà di scelta in materia di procreazione tout court, non solo di interruzione di gravidanza.
Dopo Giulia Cecchettin non è cambiato molto vero?
Dipende da come si misura il cambiamento. Non mi aspettavo certo che gli uomini smettessero di ammazzare le donne per punirle della loro libertà. Bensì che cambiasse la sensibilità collettiva, che ci fosse maggiore consapevolezza nel senso comune di quello che è la violenza contro le donne. E mi pare che questo stia accadendo, anche se certo lascia sconcertate che la conta quasi quotidiana dei femminicidi continui tale e quale anche dopo quella grande sollevazione popolare seguita alla morte di Giulia.