Il dibattito sui femminicidi

Cosa è cambiato col caso di Giulia Cecchettin, il risveglio della ragione?

Dopo il femminicidio di Giulia non si è pensato di aumentare le pene, infliggere più galera. Per la prima volta si è invece parlato molto di prevenzione, formazione, cultura. Un sollievo. Durerà?

Cronaca - di Massimo Donini - 13 Dicembre 2023

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Il femminicidio di Giulia Cecchettin
Il femminicidio di Giulia Cecchettin

Le ambiguità della politica penale del governo sono a tutti evidenti. Punitivismo verso certi tipi di autore, garantismo processuale o sostanziale verso altri. Il diritto penale non più in ogni caso al posto dell’etica pubblica, ma senza essere sostituito neppure da una sanzione morale per i rappresentanti istituzionali.

Nulla di troppo sorprendente per chi sa che il diritto penale è disuguale come la società, perché fa parte della politica differenziare secondo criteri anche di classe, compresa la diffusione di messaggi contraddittori, di liberalismo e di giustizialismo insieme. La battaglia per una diversa uguaglianza sostanziale passa infatti in primo luogo attraverso risposte politiche e sociali diverse da quelle punitive. È anche un fatto di cultura politica e dei diritti.

Accade che per imperscrutabili meccanismi massmediatici e sociali, cavalcando l’onda emotiva delle vicende quotidiane, di qualche delitto atroce, accanto ai processi incoercibili di penalizzazione populistica “di risposta” o “di reazione”, si costruisca o si condizioni anche positivamente l’opinione pubblica, che troppo spesso è “educata” a pensare che mediante le leggi penali si possano “sopprimere” i fenomeni criminosi (certi fenomeni soprattutto).

Si chiamano “suppression conventions” i numerosi accordi internazionali finalizzati a neutralizzare fenomeni di criminalità organizzata di tipo “transnazionale”: dalla tratta di esseri umani, allo sfruttamento sessuale di minori, alla corruzione, al terrorismo, ai cybercrimes etc.

La responsabilità resta individuale e personale, anche se la legge che punisce (e presenta un apparato preventivo o processuale ben più articolato) vorrebbe risolvere un problema generale, e cancellare il fenomeno: ciò che evidentemente non può mai ottenersi solo in forza di una normale e proporzionata risposta punitiva al singolo delitto commesso da una persona umana, ma solo mediante un complesso di interventi di prevenzione e formazione.

In ogni caso, una cosa sono i crimini transnazionali commessi in forma organizzata, smantellabili come strutture organizzative, altra cosa i reati comuni. Nessuno ha pensato, se non in una dimensione di Minority Report o di un orwellismo spinto, che si possa veramente “sopprimere” l’omicidio (per non parlare del furto) mediante le leggi penali, soprattutto in un Paese che a livello nazionale ha tassi inferiori a tante altre realtà europee od occidentali: sono molti di meno gli omicidi dolosi annuali in Italia (attorno ai 300) di quelli commessi in un anno nella sola città di New York (oltre 400).

Anche ridurre il numero dei femminicidi, in quella quota nazionale già statisticamente non elevata, non appare facile, ma certo rappresenta un impegno molto serio e condiviso, che va ben oltre la punizione, coinvolgendo la cultura, la formazione, l’educazione.

Come accade del resto per la prevenzione degli omicidi colposi, dieci volte più numerosi da sempre, che si raggiunge non con la severità delle pene criminali, ma con la prevenzione di polizia, amministrativa, con l’osservanza di regole cautelari e politiche di impresa o di controllo (questo sì, anche orwelliano) dei rischi e delle condotte pericolose.

Nonché con l’educazione collettiva al rispetto della legalità e di norme etica pubblica, che i vari Ministeri, del lavoro, della salute, dei trasporti, delle politiche agricole, dell’istruzione etc. dovrebbero attuare. Cominciando dalla formazione scolastica e da campagne di informazione e spot pubblicitari di massa.

Purché non diventi una formazione militare, avrebbero il nostro appoggio incondizionato. È con un certo sollievo, per esempio, che dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, che ha avuto una risonanza mediatica certo molto maggiore di tante altre vittime innocenti trascurate dalla pubblica opinione, ma che è assurto positivamente a “simbolo” di una reazione collettiva, “nazionale”, alla violenza contro le donne, non si sia pensato di elevare qualche sanzione, di affliggere ulteriormente il singolo autore oltre la misura di quella pena “proporzionata” di giustizia che già è assicurata dalle leggi vigenti.

Forse per la prima volta e positivamente si è parlato molto di prevenzione, di educazione, di formazione, di “cultura”. È uno di quei rari momenti nei quali si pensa che il clima e il livello della discussione potrebbe cambiare in questo Paese, verso una maggiore normalità di dialogo e razionalità di risposte.

Quanto appena ricordato, se non esistessero costumi e interessi di parte a radicalizzare i contrasti oltre la logica, attraverso la dialettica governo-opposizione, dovrebbe condurre anche a un diverso approccio all’impiego delle leggi punitive.

I consociati hanno diritto di essere informati e trattati da persone adulte, non come animali da addomesticare. Anche se sono elettori, e anzi proprio perché lo sono. Veramente Hegel faceva l’esempio di chi alza il bastone contro un cane, per criticare l’uso della legge quale strumento di mera deterrenza, anziché di educazione ai valori.

Il fatto è che l’impiego di leggi-reazione, di risposte immediate ed emotive a vicende anche gravi, dimostra il permanere di una cultura elementare, diremmo anzi primitiva. Invece gli elettori e le elettrici, anche le masse meno formate a studi superiori, ma votanti, devono essere elevate dalla legge, non assecondate o illuse con reazioni a corto circuito, che riproducono una risposta violenta traducendola in legge.

Quale è, dunque, il senso di queste prese di coscienza? È che fenomeni diversi meritano risposte differenti; ma soprattutto che la dimensione formativa ed educativa della legalità non si esprime con la violenza reattiva delle pene, quanto piuttosto con i valori positivi che le leggi intendono promuovere.

Ogni opposizione politica a governi ispirati al massimalismo e al populismo punitivo (ce n’è uno di destra, oggi, ma vari sono stati quelli di sinistra in passato, mutando obiettivi e tipi di autore perseguiti) dovrebbe dunque ispirarsi all’obiettivo di costruire una cultura di questo tipo.

La dimensione valoriale delle leggi e del diritto è il vero obiettivo umanistico della legalità; mentre la violenza delle reazioni emotive alle diverse emergenze o a singoli fenomeni o fatti di cronaca è espressione di uno smarrimento ideale e culturale della legislazione: un tradimento del diritto attraverso la legge, imposta magari con decretazioni di urgenza.

Il caso del femminicidio è esemplare. Da quando esplose a livello internazionale la vicenda raccapricciante di Ciudad Juárez al confine nord del Messico (Stato di Chihuahua) con il Texas, per il numero e le modalità non solo degli omicidi (oltre 2000 all’anno) legati al narcotraffico, ma dei femminicidi (oltre 2300 donne uccise dal 1993, più centinaia di donne “desaparecide”: fra le statistiche di ogni tipo, v. l’inchiesta di El País, 30 gennaio 2022), nessuna persona ha potuto pensare che fosse solo una legge punitiva la via d’uscita da un contesto di sottocultura del crimine e della violenza di genere.

Letteratura e cinematografia hanno illustrato un fenomeno tutt’ora sconvolgente, ma per nulla eccezionale nei numeri, se raffrontato con altre realtà, non solo sudamericane. Le radici del male hanno introdotto a livello criminologico la categoria del femminicidio inteso come uccisione di una donna “perché donna”, in quanto donna.

In America Latina, nel ventennio passato, si sono moltiplicate le leggi penali che aggravano e tipizzano le sanzioni per il solo femminicidio quale reato a sé stante. Il penale si è fatto così veicolo di quello che è stato definito (Barbara Spinelli) un “vocabolario motivazionale” antagonista a quello egemone patriarcale.

Una letteratura internazionale copiosissima studia da decenni il fenomeno. È difficile misurare gli effetti di queste campagne, nelle quali la legge si fa portatrice di valori, ma per questo obiettivo aumenta la sofferenza dei prossimi autori rispetto a tutti quelli del passato.

Il fatto è che il “non uccidere” non è stato scritto nelle tavole delle leggi, di quelle religiose o civili, per gli altri. Siamo tutti coinvolti da quel precetto, e fortunati se non lo abbiamo infranto.

Per tale ragione semplice e fondamentale ci auguriamo che i rari momenti di consapevolezza collettiva non restino confinati tra le spettacolarizzazioni quotidiane di una società bisognosa di continue iniezioni di emotività passeggera. Contro i fenomeni permanenti è richiesta una educazione permanente, senza l’illusione di raddrizzare del tutto il legno storto dell’umanità.

13 Dicembre 2023

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