Il romanzo postumo

“Ci vediamo in agosto” di Gabriel García Márquez, il traduttore Bruno Arpaia: “Un regalo della vita, ma non chiamatelo realismo magico”

La pubblicazione dell'ultima opera, postuma, a quasi 10 anni dalla morte di Gabo, è la storia di un tradimento. Dopo aver letto "Cent'anni di solitudine" Arpaia maturò la convinzione di diventare scrittore. "Inquadrarlo nel real maravilloso è la più grande stupidaggine"

Cultura - di Antonio Lamorte

8 Marzo 2024 alle 17:59

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COLLAGEDI FOTO DA LAPRESSE
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Quella di Ci vediamo in agosto, l’ultimo romanzo pubblicato postumo e a quasi dieci anni dalla morte di Gabriel García Márquez, è la storia di un tradimento. All’improvviso, quando nessuno se l’aspettava, un nuovo mucchio di fogli, manoscritti che lo scrittore colombiano Premio Nobel per la letteratura aveva chiesto fossero distrutti. E invece no: come quando a inizio novembre milioni di persone si sono sparati nelle orecchie Now and then, allo stesso modo milioni di persone sono andati in libreria a prendere una copia dell’ultimo romanzo di Gabo – non ce ne saranno altri, hanno assicurato i figli. Con l’ultima canzone dei Beatles c’entrava l’intelligenza artificiale, qui c’entra soltanto una storia editoriale travagliata e controversa che ha fatto storcere il naso a molti.

L’ultima opera di fiction pubblicata da Gabo in vita era stata Memoria delle mie puttane tristi. Quando la memoria prese a mancargli ripeteva: “Senza di lei, non c’è nulla”. Aveva cominciato a soffrire di demenza senile. “Questo libro non funziona”, aveva detto allora ai familiari, al suo entourage. E quelli gli avevano dato retta, ma fino a un certo punto. Prima di aver riletto quel manoscritto e di averlo trovato meglio di come lo ricordavano. “Con un atto di tradimento”, hanno ammesso, lo hanno rivisto e rimesso insieme e pubblicato. È uscito in una trentina di Paesi, in Italia per Mondadori e con la traduzione di Bruno Arpaia, scrittore che tra le altre cose ha vinto il Premio Campiello con L’Angelo della Storia e il Premio Napoli con Il Passato davanti a noi, oltre che finalista al Premio Strega con L’energia del vuoto.

Arpaia, che da anni traduce i grandi della letteratura ispanofona, confessa a L’Unità che questa traduzione è stata qualcosa di diverso: di personale. Ci vediamo in agosto sarà stato e sarà qualcosa del genere per milioni di lettori in tutto il mondo. La vicenda di questo ultimo romanzo è un moltiplicatore delle emozioni che saltano fuori dalle sue pagine: oltre a quella di ritrovarsi tra le mani un nuovo libro di Gabo, anche la percezione di assistere al conflitto tra l’uomo alle prese con il suo corpo, le sue facoltà mentali e fisiche, e l’artista che vuole continuare a creare, a scrivere. È finito tutto con il tradimento dichiarato dei figli – che al New York Times hanno ammesso di essere dispiaciuti di poter sembrare soltanto degli avidi. E tradurre vuol dire anche tradire.

Ha maturato la convinzione di voler diventare scrittore dopo aver letto Cent’anni di solitudine, quando era un ragazzo. García Márquez le ha cambiato la vita?

Erano gli anni ’70, anni di militanza a volte anche stupida. Mi ricordo che i dirigenti dei gruppi di sinistra extraparlamentare ci dicevano che non bisognava leggere romanzi: che bisognava leggere i saggi. Io leggevo moltissimi saggi fino a quando mi innamorai di una ragazza, che mi fece conoscere questo romanzo. Capii che il mondo poteva essere anche a colori e non soltanto in bianco e nero. Quel romanzo mi ha cambiato la vita, posso dirlo. Sia perché mi ha fatto diventare scrittore sia perché ha accelerato il mio amore per la cultura ispanica.

Ha mai incontrato García Márquez?

No, purtroppo no. Dei grandi della cultura ispanoamericana non ho incontrato soltanto lui e Julio Cortázar.

Che cosa ha significato per lei tradurre Ci vediamo in agosto?

È stata una grande sorpresa e quando mi hanno proposto di tradurlo è stata un’emozione, un regalo della vita. Non avevo mai tradotto García Márquez. Quando ho curato i Meridiani (il secondo Volume dell’opera, ndr) non ho fatto le traduzioni. Posso dire di conoscere quasi a menadito tutta l’opera di Márquez, in maniera involontaria ho anche fatto miei tanti suoi stilemi, vezzi stilistici, caratteristiche di personaggi e paesaggi.

Che cosa ritrova dello scrittore che conosceva?

García Márquez ha sempre proceduto in maniera esplorativa. Cercava innovazioni, cercava di affrontare le cose da diversi punti di vista riaffermando temi e scenari precedenti. Innovava senza tagliare i ponti con il passato. È andato sempre più cercando una scrittura essenziale, che poi è una caratteristica tipica della vecchiaia. Più vai avanti più cerchi di arrivare al nucleo delle cose: sei più vicino alla morte e quindi badi maggiormente alle cose essenziali.

Cosa aggiunge questo romanzo?

È un romanzo certamente lineare. La cosa nuova è il modo in cui lui racconta questa protagonista: una donna matura, felicemente sposata senza problemi particolari, che ogni anno ciclicamente torna su quest’isola e trova un’avventura extraconiugale, senza che tutto questo intacchi il rapporto con il marito. Quasi il contrario di quello che succede in L’amore ai tempi del colera. Qui l’infedeltà è un moto di liberazione. Era cambiato a quanto pare anche il modo in cui Gabriel García Márquez guardava alle donne.

Si può dire, un po’ banalmente, che si tratta di un personaggio molto moderno, attuale.

Sicuramente. È una donna libera, che attraverso l’infedeltà cerca una forma di liberazione.

Ci può parlare delle incongruenze presenti nel testo?

Ce ne sono alcune. Per esempio quando la protagonista va a ballare e l’orchestra per due volte suona la stessa musica e lui la racconta come se fosse qualcosa di diverso. Le incongruenze che ho notato le ho fatto notare a Rodrigo, al figlio di Gabriel Garcia Marquez. Hanno deciso di lasciarle tutte, sono piccole cose.

Gabriel García Márquez fa parte di una ristretta cerchia di scrittori diventati icone, i loro libri dei cult, personaggi pop come Ernst Hemingway e Oscar Wilde. Come spiega questo fenomeno legato a Gabo, anche a tanti anni di distanza?

Alcuni scrittori riescono a conciliare perfettamente l’altissima qualità letteraria e il successo di pubblico perché raccontano belle storie e le raccontano bene. Gabriel García Márquez ha cambiato radicalmente l’immaginario del mondo sul suo continente. Sono stati battezzati dei bambini con i nomi di Amaranta Ursula o José Arcadio. Macondo è diventato un posto mitico, ha ispirato bar e locali ovunque. Un fenomeno che ha la sua parte oscura.

Quale?

Inquadrare Marquez nel realismo magico è la più grande stupidaggine che si possa fare. Il “real maravilloso” era stato teorizzato da Alejo Carpentier, uno scrittore cubano. García Márquez ha sempre cercato di scrollarsi di dosso questa etichetta inventata dai critici europei e nordamericani, pigri, e sostenuta dalla sua agente Carmen Balcells. Questo genere ha ammantato tutta l’America latina di un’aura esotica, come se ci fossero sempre persone nude tra mangrovie e banani a sognare. Non è così naturalmente. García Márquez questo lo combatteva: a me piace l’immaginazione non la fantasia, diceva.

Quell’immaginario però avrà fatto gioco alla sua opera?

Sì, però quello era quello che ci piaceva dell’America Latina. Abbiamo messo in una terra completamente immaginaria, nostra, tutte le utopie che non riuscivamo a realizzare qua. Lui ha cambiato l’immaginario ma noi siamo stati molto pigri e spesso lo abbiamo capito male. Ancora oggi, a quasi sessant’anni, c’è chi parla di realismo magico. Ma non è lì la grandezza di Garcia Marquez.

Lei, scrittore e traduttore, preferisce più scrivere o tradurre?

Non c’è dubbio alcuno: scrivere è la cosa che mi piace di più, tradurre è bellissimo ma è un’altra cosa. È una libertà piena di doveri, c’è una disparità tra la voce dell’autore e la mia. Molte volte avrei scritto in un altro modo ma devo adeguare la mia voce a quella dello scrittore e devo fare in modo di trasferire il suo universo linguistico.

8 Marzo 2024

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