L'intervista a Mexico
A “Napoli Ferrovia” con Caracas, quello vero: “Il film? Rea non era così, D’Amore non è Martone o Capuano”
All'Unità il personaggio che ha ispirato il libro di Ermanno Rea, finalista al Premio Strega, che ha a sua volta ispirato il film di Marco D'Amore. "Non sono un fantasma, non possono fare come gli pare con la mia storia". Una passeggiata e un'intervista nella città multietnica e proibita
Cinema - di Antonio Lamorte
Lo avevamo lasciato che aveva fatto perdere le sue tracce da qualche parte nei vicoli, nella notte. Ermanno Rea scrisse in quelle ultime pagine di “strani fatti”, di “un uomo che c’è e non c’è. Che è reale finché non si lascia tentare dalla clandestinità, dal vuoto, da un’insana voglia di anonimato”, che non rispondeva più ai messaggi e alle telefonate. Che fine aveva fatto Caracas, l’ex naziskin convertito all’Islam, “Cristo della Ferrovia” di Napoli, amico geniale e sodale degli ultimi, anomalo Virgilio che aveva accompagnato lo scrittore nella città proibita delle prostitute, dei vicoli in cui si parlavano più lingue che all’Orientale, di Napoli che a Rea ricordava casa e dove allo stesso tempo si sentiva estraneo? Dove era andato a finire Caracas, che poi neanche si chiama Caracas, come è stato intitolato il film di Marco D’Amore, dal 29 febbraio al cinema, con Toni Servillo e Lina Camélia Lumbroso, tratto appunto dall’opera letteraria Napoli Ferrovia di Ermanno Rea?
Caracas in realtà si chiama Mexico, “non uno che arriva quando c’è la notizia – scriveva Francesco Durante nell’introduzione al libro fotografico Grand Hotel Ferrovia edito da Tullio Pironti Editore – Mexico è già lì. Racconta dal di dentro, non dal di fuori. Nelle sue immagini c’è un moto di commozione, c’è la partecipazione dell’amico, non l’impassibilità del testimone”. Mexico per una vita ha fatto il fotografo e il grafico. Cominciarono a chiamarlo così quando arrivò dal Venezuela che era bambino e parlava uno strambo itagnolo. Si chiama Ferdinando Ottaviano Quintavalle. Quando si è convertito ha scelto il nome Abdullah. Aspetta sotto la statua – “quella maledetta statua” – a Piazza Garibaldi.
Chi è Caracas
Bomber nero in pelle, pantalone nero, anfibi neri, kefiah al collo, un paio di occhiali da sole a occultare uno sguardo di ghiaccio. Indica da una parte e dall’altra della piazza quello che c’era e quello che non c’è più. “Questo posto non è più lo stesso, hanno chiuso in tanti, altri se ne sono andati”. D’Amore, alla preview al cinema The Space a Napoli, aveva detto ai giornalisti di non aver sentito l’esigenza di cercare il vero Caracas, di non cercare a ogni costo la realtà: che per diventare Ciro “L’immortale” Di Marzio in Gomorra non era andato a spacciare a Scampia. Non ha sentito l’esigenza, non avrà avuto neanche la curiosità.
Mexico dice di aver visto il film, il pomeriggio prima, in una sala del Vomero mezza vuota “con altri tre o quattro vecchietti come me”. Lo dice con una specie di rancore. Dice di essere felice di parlarne con un giornalista che lavora per L’Unità: per L’Unità lavorò Rea. “Andiamo a fare un giro”. Prima però: com’è che Abdullah Ferdinando Ottaviano Quintavalle conosciuto come Mexico, e ancora più conosciuto come Caracas, vuole che lo si chiami? “Caracas fu il nome che mi diede Rea per Napoli Ferrovia, voleva proteggermi ma mi conoscevano tutti: quella storia era la mia e la conoscevano tutti”. Ok. “Chiamami come cazzo ti pare”.
Dove eravamo rimasti, Caracas?
Suona musica house araba e non i neomelodici dalle casse dei pescivendoli nel mercato sotto le mura a Porta Nolana. Poco lontano la moschea. Ci sono le trattorie napoletane, ci sono i negozi di cibo indiano. Le comunità tunisine e marocchine si sono parecchio rimpicciolite negli ultimi anni, sono arrivate ondate di pakistani e bengalesi. “Vieni, ti voglio far vedere una puttana, bellissima”. Mexico collega sempre tutto, in qualche modo, all’Islam. “Quando era giovane era ancora più bella. Vorrebbe cambiare vita: non riesco ad aiutarla, a trovarle un lavoro. Quando mi saluta non mi dà la mano, perché vive nel peccato”.
Napoli Ferrovia sarà pure cambiata ma è in questa parte di città che Mexico si sente bene, si sente a casa. La prima volta che ci passò la notte fu sotto al Palazzo Kimbo: in piedi sopra una grata da dove usciva l’aria calda. Quante volte nella sala d’aspetto della seconda classe, tutta in legno, della Stazione che non esiste più. A farlo entrare in quella città nella città fu Djamel, un ristoratore algerino che nutriva di shorba chiunque passasse anche senza pagare. Fu sempre Djamel a introdurlo all’Islam: da ragazzo era entrato prima in Ordine Nuovo e dopo in Avanguardia Nazionale – non parleremo affatto delle sue teorie negazioniste sulla Shoha. “Mi allontanai quando scoprii che erano legati ai servizi segreti. Mi proposero un’azione, pagandomi, mi rifiutai e uscii. Il mio percorso nell’Islam cominciò in un periodo di sofferenza. Non ero il nazislamico che si portava all’epoca, avevo già chiuso con la politica, mi sono avvicinato per motivi spirituali”.
Cos’è Napoli Ferrovia
Mexico racconta di quando Tullio Pironti, l’iconico editore boxeur di Piazza Dante che bruciò sul tempo in molti casi le grandi editrici del nord, gli presentò Ermanno Rea. “Ti voglio presentare un neonazista che si sta convertendo all’islam”. Contro ogni pronostico Rea rimase catturato: gli chiese di rivederlo il giorno dopo. Cominciò così quel girovagare nella città proibita dalle parti di Piazza Garibaldi. E qualche tempo dopo lo scrittore si presentò con delle pagine, un manoscritto. “Leggi, dimmi che ne pensi”. Chi non resterebbe di stucco, inzallanuto, se un grande autore decidesse bello e buono di scrivere di te? “La verità è che io facevo la mia vita, senza pensare fosse qualcosa di particolare. A un certo punto arriva un grande scrittore e la mette nero su bianco. Rimasi affascinato, mi ha scosso. E aveva scritto la verità. Quando mi chiese se poteva continuare gli dissi di sì, certo”. E a questo punto qualcosa si spezzò.
Alla fine di Napoli Ferrovia, Rea scrisse che Caracas divenne sfuggente: rispondeva prima a malapena, poi smise di rispondere. “Non si era più riconosciuto nel personaggio”, aveva realizzato. “Due cose che ha scritto non mi sono piaciute – spiega Mexico – ha scritto che una notte in cui non sapevo dove dormire, una prostituta mi invitò a casa sua e io accettai. Non era vero, ma soprattutto non era vero che quando lei tornò io feci finta di dormire e la spiai mentre si spogliava. Ma che, scherziamo?”. Più grave la seconda: c’entra Rosa La Rosa, la donna con cui Caracas visse una storia d’amore intensa, totale, funestata dall’eroina, intorno alla quale gira parte consistente di Napoli Ferrovia. “Ha scritto che quella notte di Capodanno in cui me ne andai di casa, dopo che lei si fece un’altra pera e si piegò a metà, a novanta gradi in piedi in cucina per più di mezz’ora, io prima di uscire le scattai una foto. Non era vero, ma poi che significa? Quella era la donna che amavo, pensavamo tutti avrei potuto salvarla e invece diventai un complice. Quella notte pensai: o la uccido o me ne vado. Me ne andai e di lei conservo centinaia di fotografie, era bellissima. Potevo mai scattarle una foto in quelle condizioni? Che immagine di lei avrei portato con me? Gli chiesi di togliere quella cosa”.
Quella scena resta ancora così come l’aveva scritta Rea, anche nell’edizione appena ristampata nella collana “Le stelle” di Feltrinelli. Finì male, a pesci fetenti. “Non abbiamo più ricucito, mi è dispiaciuto”. Napoli Ferrovia nel 2008 arrivò in finale al Premio Strega, battuto soltanto da quel caso letterario che fu La solitudine dei numeri primi, l’esordio di Paolo Giordano. Mexico intanto era partito, ha vissuto in Egitto, ha raccontato la Rivoluzione della Primavera Araba, è tornato a Napoli per motivi familiari e ci è rimasto. E nel frattempo è uscito Nostalgia, il romanzo (Feltrinelli) postumo di Rea del 2016, ispirato all’amicizia tra un napoletano ritornato dopo anni tra Medio Oriente e Africa alla Sanità e al suo amico d’infanzia Malommo. Mexico racconta di aver avuto un amico d’infanzia diventato un boss della Camorra, l’editor di Napoli Ferrovia Marco Ottaiano ha raccontato che già nelle bozze di Napoli Ferrovia compariva la fascinazione dello scrittore per il Rione. Pagine che vennero sacrificate e che diventarono un altro romanzo, e quindi un film di Mario Martone con Pierfrancesco Favino. Quando quasi vent’anni dopo la pubblicazione del libro Mexico ha saputo del film, Caracas, è andato a dare un’occhiata sul set. A Piazza Mercato.
Caracas non se le tiene
Gli sarebbe piaciuto avere il tesserino che la troupe mette al collo, quello con la locandina. Avrebbe voluto sapere chi avrebbe interpretato la parte di Caracas, che in realtà lo chiamavano Mexico, che a dire il vero era lui. Racconta di esser stato allontanato in malo modo: che non hanno voluto scattasse foto con la sua Leica. “Due cose non ho mai avuto, paura e soldi. Sarebbe bastato poco per farmi contento. Non hanno voluto ma non possono fare il cazzo che gli pare. Rea è morto ma io sono vivo, non sono un fantasma”. Non vuole passare per un violento: aggiunge che quelle scene delle scorribande dei fascisti non stanno né in cielo né in terra. “Sarà l’esperienza di Gomorra che continua a portarsi dietro ma quelle scene non sono mai successe, neanche negli anni ’70. Sanno tutti chi comanda qui, non si muove una foglia, altro che raid fascisti”.
È un’altra la scena che più gli ha dato infastidito. “Vedere lo scrittore ubriaco, che cade dalla sedia in un grande ristorante che hanno fatto diventare una trattoria, non mi è piaciuto. Vorrei sapere cosa ne pensano i figli. Rea non parlava nemmeno in napoletano”. C’entrerà anche l’Islam, per cui l’alcol è haram. Mexico non riconosce una delle possibilità della fiction: che un film possa essere liberamente tratto da un romanzo, che possa partire da presupposti in comune, diventare altro, sviluppare trame e personaggi che si evolvono in maniera diversa. Caracas di D’Amore rimanda al libro ma non è un calco, prova a catturare la relazione tra due persone molto diverse, che partono da presupposti ed esperienze politiche agli antipodi, la loro inquieta ricerca di qualcosa che abbia più o meno l’aspetto di un posto sicuro, un momento buono, mentre attraversano una città che inghiotte.
“E allora lo chiamavano Guatemala, lo sapevano tutti allora che Caracas era Messico, che ero io. E lo sanno oggi. Mi ha sorpreso l’inizio, con la scena del lancio con il paracadute e lui che apre solo alla fine. Ho riconosciuto l’aeroporto di Pontecagnano che conosco bene. Una cosa così lontana nel tempo, come si fa a dire che non sono io?”. Del film lo ha emozionato giusto la scena in cui il protagonista recita la Shahadah, la testimonianza di fede. “Ha trascurato il tema dell’eroina, che è centrale nel libro. Il film mi ha ricordato Athena di Romain Gavras, ma D’Amore non è Martone e non è Capuano”.
Che succede, Caracas?
Quello che è successo con Caracas, quello reale tramite quello inventato, un interrogativo: possiamo controllare le nostre storie quando le mettiamo nelle mani di uno scrittore, un giornalista, un autore? Possiamo davvero prevedere quello che possono diventare, anche molto tempo dopo, quando vengono tramandate negli anni e dalle persone non di mano in mano come una fiaccola, di voce in voce come un racconto orale, ma sulla carta o sugli schermi? Pochi dubbi, Mexico tornerebbe a dare la sua storia a Rea: quando parla dello scrittore spesso si ferma, riflette prima di esprimersi, prova una stima autentica nemmeno di una virgola scalfita da quello strappo. Napoli Ferrovia è lui: sembra sentire quel libro e le sue contraddizioni, le storie che ci vorticano dentro, quel labirinto di facce e riflessioni come la sua esistenza.
Anche se Napoli Ferrovia è cambiata da allora, da quelle passeggiate con Ermanno Rea. “Questa struttura di ferro non mi piace: prima di tutto non protegge dall’acqua. E poi è brutta, da certi punti della piazza non si vede più il Vesuvio. La piazza non andava stravolta così. Hanno fatto queste giostre, ma senza pulizie e controlli resta solo l’abbandono. Il popolo extracomunitario intanto è aumentato ma è diventato sempre più povero purtroppo”. Come scriveva Rea nel romanzo: “È arrivato il momento di rinnovare il sangue nelle nostre vene, di annacquare un’etnia sempre più segnata dalla passività, dalla recita e dall’inganno”.
Per Mexico è una realtà già da parecchio: “Questa non è più Napoli, è Africa. Altre parti sono Sri Lanka, Asia. E l’Islam si prenderà tutta l’Europa, mettetevi l’anima in pace. Come recita un antico proverbio afghano: voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. A un giornalista di “Fuori dal Coro” ha rilasciato delle dichiarazioni che gli sono costate un’indagine per istigazione a delinquere e per terrorismo. “L’Occidente è un infame”, diceva dopo gli attacchi di Hamas dello scorso 7 ottobre nel sud di Israele. La telecamera era nascosta, il volto pixelato. Di nuovo sotto la statua di piazza Garibaldi, si mette a parlare della guerra con Mohammed. “Hamas è l’anti-Cristo, i suoi capi stanno in Qatar non nella Striscia”, dice il fratello che quando parla gli altri fratelli attorno lo ascoltano in silenzio. Per questi Mexico è Abdullah, che vuol dire “servo di Dio”. La puttana che voleva mostrarmi non c’è, non è al solito posto: sarà riuscita a cambiare vita, Inshallah.