La riforma costituzionale
La riforma sul premierato e le balle dei collaborazionisti della Meloni
Un editorialista del Corriere ha persino sostenuto che per eleggere il presidente negli Usa si ricorre al ballottaggio. Fanno di tutto per difendere l’indifendibile. Ma per fortuna un costituzionalista serio come Gianfranco ha smontato il giocattolo
Editoriali - di Michele Prospero
In mezzo al gran chiacchiericcio sulla “madre di tutte le riforme”, spicca in controtendenza la voce di Gianfranco Pasquino, che su Domani ha impartito una vera lezione di scienza politica comparata.
Egli si è espresso con puntiglio perché ha avvertito con fastidio (come dargli torto?) che “poco e male informato sugli elementi costitutivi delle forme di governo, il dibattito italiano combina intenti manipolatori con errori grossolani”. Non poteva naturalmente mancare la matita blu del docente che non esita a rimarcare almeno gli svarioni più pacchiani.
A farne le spese è stato un editorialista di punta del Corriere che, quando parla di Gramsci, scrive Quaderni dal carcere e, allorché indossa i panni dell’ingegneria costituzionale, invita a fare come negli Stati Uniti, evocando una fantomatica elezione del presidente americano tramite “ballottaggio”.
Ma la graffiante penna di Pasquino ha raggiunto il suo apice quando, con una elegante puntura di spillo, ha bucato il palloncino gonfiato del preteso “modello” denominato “premierato all’italiana”, che viene venduto al pubblico come la definitiva soluzione all’enigma della stabilità, della governabilità, della legittimazione democratica.
L’articolo chiarisce in termini tecnici come solo in una maniera grossolana si possa ricorrere alla locuzione “premierato elettivo” e incasellarla in un qualche stampino costituzionale. Piantando i necessari paletti definitori, Pasquino ha inteso anzitutto stabilire che “l’elezione popolare diretta non ha nulla a che vedere con il governo del primo ministro, con il premierato, e neppure con il parlamentarismo”.
L’elezione diretta del capo di governo rappresenta infatti un unicum sulla scena politica mondiale che esalta la insana fantasia del riformatore italiano, pronto a decidere a ritmo accelerato la soppressione della classica separazione dei poteri perché è a corto delle basi minime di conoscenza sulle dinamiche istituzionali.
Trattandosi di una invenzione del tutto mediterranea, riguardante un tipo di governo che non si è mai visto altrove (nemmeno l’esperimento israeliano negli anni 90 è in pieno sovrapponibile), latitano dei dati per misurare il rendimento del novello impianto di potere.
Prevedibili sono tuttavia le conseguenze di un regime evirato delle attitudini alla flessibilità e adattamento proprie del parlamentarismo: oscillazione tra comando pieno e immobilismo, mantenimento dell’obbedienza degli eletti attraverso il ricatto dello scioglimento anticipato dell’assemblea.
Pasquino non ha nascosto perplessità su come persino un giurista come Sabino Cassese abbia potuto avallare il modellino ibrido della destra sostenendo che il Quirinale conserverebbe comunque le attuali funzioni di riequilibrio sistemico.
Il ruolo evanescente riservato nel progetto Meloni al presidente della Repubblica, quale mero “rappresentante dell’unità nazionale”, vale ben poco alla luce della ben più corposa sottrazione al Colle del potere di gestione delle crisi e del ruolo di attore rilevante nello scioglimento delle Camere (che è un “atto complesso”).
Occorre mettere bene in chiaro, questa è la conclusione cui perviene Pasquino, che “il premierato dello stivale non esiste. La proposta non è emendabile. Deve essere respinto senza mercanteggiamenti, né sopra né sotto banco. Rafforzare il capo del governo senza snaturare la democrazia parlamentare italiana è possibile con la semplice introduzione del voto di sfiducia costruttivo”.
Alla luce di questa considerazione inoppugnabile, non resta che stare all’erta per i danni irrimediabili che potrebbero provocare, oltre agli apprendisti di governo, anche gli arzilli mediatori in servizio permanente effettivo.
I “minipremiaristi” (così li chiama Pasquino), i quali prospettano di archiviare l’elezione popolare del capo in cambio della concessione che sia indicato in maniera vincolante sulla scheda elettorale il nome del premier provvisto di poteri “europei” (quali, dato che in gran parte tali facoltà sono di natura convenzionale e connesse al sistema dei partiti?), si illudono di razionalizzare con piccole correzioni un meccanismo nella sua stessa essenza perverso.
Le aporie del disegno di riforma sono così macroscopiche che le opposizioni farebbero bene a combatterlo integralmente, e senza infingimenti. La mediazione tattica, con costose ritirate preventive su un congegno palesemente sgangherato, non farebbe che aggiungere altra irrazionalità a un testo che di per sé appare già come un esplosivo deposito d’illogicità costituzionale. La sola strategia utile, che opportunamente Pasquino sollecita, contempla una coerente mobilitazione delle opposizioni e della società civile.
Nessun riformismo a spizzichi, volto a tamponare qualche sgrammaticatura del documento, può davvero escogitare la formula magica per curare una disarticolazione dell’incastro dei poteri costituzionali. Con la follia non si viene a patti, piuttosto si accetta lo scontro confidando nella saggezza del popolo sovrano.