La battaglia interna

Riforma del premierato, la guerra tra Lega e FdI fa a pezzi la Costituzione

Il premier eletto dal popolo ottiene la fiducia del Parlamento. Il capo dello Stato non scioglie le Camere: la Costituzione non è intoccabile, ma farla a pezzi è un'altra cosa

Politica - di David Romoli

7 Febbraio 2024 alle 12:30

Condividi l'articolo

Riforma del premierato, la guerra tra Lega e FdI fa a pezzi la Costituzione

La riforma costituzionale di Giorgia Meloni è anche peggiore di come la dipinge l’opposizione ma per motivi in buona parte diversi da quelli messi all’indice. È viziata da una contraddizione di fondo, e di quelle insanabili, dovuta probabilmente alla paura di una bocciatura referendaria in caso di scelte troppo chiare. Dunque viva l’ambiguità, che però non è mai il rimedio giusto.

La contraddizione fondamentale sta nella decisione di affidare a una fonte di legittimazione, in questo caso gli elettori, il potere di nomina del premier e a un’altra fonte di legittimazione, il Parlamento, il potere di revoca, includendo una possibilità di sostituzione, però una sola per legislatura come se il problema fosse nel numero dei ricambi possibili e non nella contraddizione implicita che a propria volta ne genera, complici i calcoli di bottega dei partiti.

La doppia fonte di legittimazione è esplicita: il premier è eletto direttamente, ma il suo governo deve ottenere la fiducia del Parlamento. Il rischio di conflitto tra la scelta degli elettori e quella dei parlamentari è quasi inesistente: la norma dice, tra le righe, che il premier, pur se unto dal popolo votante, deve poi mediare e trattare i ministeri con la sua maggioranza. Ma di fatto introduce una concorrenzialità i cui guasti potenziali sono già evidenti nella norma anti-ribaltone riveduta e corretta.

Nella versione attuale, e probabilmente non definitiva, si legge che “in caso di revoca della fiducia, mediante mozione motivata, il Presidente scioglie le Camere”. Subito dopo viene aggiunto che “in caso di dimissioni volontarie” del premier questi può “chiedere al presidente” lo scioglimento delle camere.

Richiesta per modo di dire dal momento che nel testo si aggiunge che a quel punto il capo dello Stato “lo dispone”, e non “può disporlo”. Solo nei casi di “morte, impedimento permanente, decadenza il presidente “può conferire per una sola volta nel corso della legislatura” l’incarico di formare il governo “a un altro parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio”.

La casistica sembra dettagliata invece è monca, come ha segnalato subito l’ex presidente del Senato Pera e come comunque salta agli occhi subito. Manca infatti una circostanza, non a caso quella più comune: il caso cioè in cui la fiducia al premier sia “revocata” senza “mozione motivata” e a maggior ragione senza “dimissioni volontarie”, insomma la fiducia posta dal governo su un provvedimento e bocciata nel voto di una delle due camere.

La formula è stata fortemente voluta dalla Lega che non apprezza affatto questa riforma. Ha dovuto ingoiarla in cambio del sì di malincuore di FdI all’autonomia differenziata, ma cercando di disseminare congegni a orologeria nel testo. Va da sé che l’ambiguità sulla circostanza più frequente e probabile è destinata a produrre contenziosi e scontri tra letture antitetiche del medesimo testo, che del resto è fatto apposta per consentire quelle interpretazioni contrastanti.

La manovra furbesca della Lega, però, non sarebbe possibile senza quella contraddizione di fondo originaria che in teoria risponde a un’esigenza reale, quella del bilanciamento dei poteri, del sistema di pesi e contrappesi che è l’anima della democrazia. Però lo fa per finta e in modo sbagliato, essendosi i nuovi costituenti preoccupati solo delle apparenze e per nulla della sostanza.

Creare una zona grigia intorno alla possibilità di revocare il premier e assegnare al Parlamento la facoltà di concedere la fiducia al suo governo permette di affermare che il Parlamento ha ancora una funzione centrale. In realtà, invece, lo priva definitivamente di ogni potere.

Se il premier, come sarebbe logico, dovesse restare in carica comunque per l’intero mandato o essere sostituito in caso di morte o impedimento da un vice indicato in anticipo il governo perderebbe la facoltà di ricattare il Parlamento col voto di fiducia, il vero strumento che, in accoppiata con la decretazione d’urgenza onnivora, lo ha ridotto già a un simulacro.

Senza poter minacciare i parlamentari di mesto ritorno a casa, il potere legislativo recupererebbe una funzione centrale e determinante, avendo riconquistato la libertà di approvare o bocciare le leggi senza temere di dover tornare a casa in caso di voto contrario alle indicazioni del governo. Ma ciò è precisamente quel che i partiti sia di maggioranza che d’opposizione, in questo identici, vogliono evitare.

Lo stesso discorso si applica al presidente della Repubblica. Qui la confusione assume caratteri satirici. Il Parlamento deve concedere al fiducia ai ministri scelti da un premier che non ha scelto. Però, a differenza di quanto accade oggi, non può poi revocarli. Questa facoltà passa al presidente della Repubblica, in modo da poter dire che il presidente ha ancora parte dei suoi poteri quando invece, una volta eliminate la nomina del premier e la facoltà di sciogliere le Camere di fatto quasi non ne ha più.

Sull’altro nodo dolente, la legge elettorale e il premio di maggioranza, ha inciso negativamente un altro fattore: la fretta. Nella versione originale il premio di maggioranza al 55% era stabilito già in Costituzione. Ora quasi tutto è demandato alla legge elettorale e già l’idea di varare una riforma di questo tipo senza aver già concordato con quale legge elettorale supportare la nuova architettura istituzionale è surreale.

La nuova Carta afferma però che il premio, ancora da quantificare, deve comunque garantire la maggioranza assoluta in entrambe le camere. Si parla dunque di un premio nazionale anche al Senato, che però è eletto su base regionale e già una volta, col Porcellum del 2006, il premio nazionale fu bocciato dal presidente Ciampi, con le conseguenze caotiche ben note.

Per evitare il guaio sarebbe stato necessario allargare la riforma al Senato ma in questo caso non si sarebbe più fatto in tempo a definire la riforma e votarla in prima lettura in tempo per le europee.

Dunque la maggioranza stabile al Senato continuerà a non esserci. La “Costituzione più bella del mondo” può essere riformata senza bisogno di gridare allo scandalo e alla democrazia violata. Però bisognerebbe farlo bene e con la necessaria cura. La destra italiana invece lo sta facendo peggio di come non si potrebbe.

7 Febbraio 2024

Condividi l'articolo