La riforma costituzionale
Caos premierato, gli emendamenti fanno peggio di prima…
Resasi conto dell’assurdità del premier sostituibile, la destra ha tentato di rimediare. Ma ora, in caso di rotture nella maggioranza, il premier può “inciuciare” con altri partiti: alla faccia della “sovranità” popolare”
Editoriali - di Salvatore Curreri
Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli. Il che è quantomai vero quando si tratta di testi normativi. Se poi parliamo del disegno di legge costituzionale, testo che vorrebbe modificare la forma di governo della nostra Costituzione, l’attenzione ai dettagli deve essere massima.
Com’è noto, la proposta iniziale di riforma del Governo è stata travolta da un profluvio di critiche, non solo da parte della quasi unanimità dei costituzionalisti. Tra i motivi principali di critica, oltre alla riduzione dei poteri di mediazione del presidente della Repubblica, vi era la paradossale debolezza del presidente del Consiglio che, benché eletto direttamente, poteva essere sostituito in corso di legislatura da un altro parlamentare della sua maggioranza, molto più forte di lui perché lui sì, non sostituibile se non a prezzo dello scioglimento anticipato delle camere.
Resasi conto dell’assurdità di tale soluzione, il Governo (anziché i partiti della sua maggioranza) ha presentato quattro emendamenti che correggono la proposta iniziale. Molti accolgono le critiche mosse: s’introduce per il presidente del Consiglio eletto (ma perché non chiamarlo Primo ministro?) il limite massimo dei due mandati quinquennali consecutivi (a meno che non abbia governato per meno di sette anni e mezzo), con definiva pace di chi ritiene che la glorificazione della sovranità popolare non debba tollerare i limiti entro cui, invece, per Costituzione, va esercitata; si prevede espressamente il potere di revoca, oltreché di nomina, dei ministri; ci si limita a prevedere un premio di maggioranza per le liste collegate al presidente del Consiglio eletto, anziché fissarne direttamente in Costituzione la quota del 55%, nel rispetto del principio di rappresentatività e non più di quello di governabilità, espunto dal testo; si precisa che tale premio sarà assegnato anche al Senato, anche se eletto su base regionale; si abroga il divieto al presidente della Repubblica di sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato (c.d. semestre bianco).
Ma il punto più controverso, come detto, riguardava la risposta alla domanda: che accade se il presidente del Consiglio eletto viene sfiduciato o si dimette? Può essere sostituito oppure può chiedere (e ottenere) dal presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere così da far decidere agli elettori chi – tra lui e (un partito della) sua maggioranza – ha tradito gli impegni elettorali?
Se prima, come detto, la proposta prevedeva la possibilità di sostituzione del presidente del Consiglio eletto con altro parlamentare della sua maggioranza, l’emendamento presentato introduce una diversa disciplina delle crisi di governo, oggi trattate unitariamente, a seconda della loro origine, per cui avremmo: crisi parlamentari; crisi extra-parlamentari di natura personale e crisi extraparlamentari di natura politica.
Cominciamo dalle crisi extraparlamentari dovute a ragioni personali, cioè in caso di morte, impedimento permanente o decadenza del presidente del Consiglio eletto. In tali casi, al contrario di quanto rigidamente accade nelle Regioni, le Camere non verrebbero automaticamente sciolte ma il presidente della Repubblica potrebbe, in alternativa, conferire l’incarico di formare il nuovo governo ad un parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio, per permettere la prosecuzione dell’azione di governo, interrotta da cause non politiche.
Riguardo alle crisi extraparlamentari dovute a rotture politiche nella maggioranza e formalizzate dal presidente del Consiglio con le sue dimissioni, si potrebbero avere due esiti: o egli decide di resistere, chiedendo o ottenendo lo scioglimento delle Camere dal presidente della Repubblica; oppure, in caso contrario, quest’ultimo conferisce l’incarico di formare il nuovo governo o allo stesso presidente del Consiglio dimissionario oppure ad un altro parlamentare eletto in collegamento con lui.
Si noti che, nonostante l’ossessione per i ribaltoni, nulla impedirebbe in tal caso al presidente del Consiglio di rimanere in sella cambiando maggioranza, stile Conte II. In altri termini, se un partito decide di uscire dalla maggioranza di governo, il presidente del Consiglio potrebbe dimettersi ma vedersi poi riconfermato l’incarico da un presidente della Repubblica “parlamentarista” (come quando Scalfaro nel 1994 negò lo scioglimento a Berlusconi) se riuscisse a trovare un’altra maggioranza parlamentare, diversa da quella per cui è stato eletto.
Infine, riguardo alle crisi parlamentari, cioè determinate da un voto parlamentare, oggi esse si possono aprire in tre casi: 1) mancata approvazione della iniziale mozione di fiducia (De Gasperi VIII 1953, Fanfani I 1954, Andreotti I 1972, Andreotti V 1979, Fanfani VI 1987); 2) approvazione di una mozione motivata di sfiducia (mai accaduto); 3) bocciatura di una questione di fiducia (Prodi I 1998, Prodi II 2008).
In base all’emendamento presentato solo l’approvazione di una mozione di sfiducia (caso 2) determinerebbe lo scioglimento delle Camere. Se non è mai accaduto fino ad ora, figuriamoci in futuro, visto che in tal modo (una parte del) la maggioranza farebbe harakiri, quando invece avrebbero altri strumenti per sbarazzarsi del presidente del Consiglio eletto.
Nel caso di mancata fiducia iniziale (caso 1) si continua a prevedere – non si sa se per accanimento terapeutico o degradazione della dignità delle Camere – la ripetizione del voto, solo il cui secondo esito negativo determinerebbe lo scioglimento delle Camere. Ma è nell’ipotesi della bocciatura della questione di fiducia (caso 3) che si cela il dettaglio diabolico di cui dicevamo all’inizio.
In questo caso, infatti, al contrario di quanto accade in caso di mozione di sfiducia, non si prevede lo scioglimento automatico delle Camere per cui il presidente del Consiglio dovrebbe dimettersi, senza potersi difendere dalla ribellione di parte della sua maggioranza. Si potrebbe azzardatamente sostenere che il presidente del Consiglio, in caso di bocciatura della questione di fiducia, potrebbe ottenere lo scioglimento delle Camere perché le sue dimissioni sarebbero volontarie.
Errore da matita blu. Come gli studenti di diritto costituzionale di primo anno sanno, in caso di questione di fiducia respinta le dimissioni del presidente del Consiglio sono costituzionalmente obbligatorie, non volontarie, perché segnano l’interruzione del rapporto di fiducia che deve intercorrere tra Parlamento e Governo.
È vero che “il voto contrario di una o entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni” (art. 94.4 Cost.) ma qui è lo stesso governo, ponendo la questione di fiducia, a far dipendere il suo destino dall’esito della votazione.
Del resto è proprio questo possibile esito che dà forza a tale istituto, costringendo la maggioranza a compattarsi. Peraltro, ci si è dimenticati di prevedere le conseguenze di tali dimissioni, proprio perché obbligatorie e non volontarie, per cui potrebbe accadere che il presidente del Consiglio impallinato con la questione di fiducia potrebbe essere sostituito non solo da un parlamentare eletto in collegamento con lui ma da chiunque.
In conclusione il presidente del Consiglio eletto potrebbe difendersi dai colpi di mano della sua maggioranza ottenendo lo scioglimento delle Camere solo in caso di approvazione di una mozione di sfiducia o di dimissioni volontarie; non potrebbe invece farlo in caso di bocciatura di una questione di fiducia, soluzione che per questo sarà senz’altro preferita.
Insomma, gli emendamenti proposti, anziché chiarire, accrescono intollerabilmente la confusione istituzionale che deriva dal cercare l’impossibile compromesso tra elezione diretta del presidente del Consiglio e dinamiche proprie di un sistema parlamentare. Una toppa peggiore del buco.