La polveriera Medioriente

“Perché gli Usa non entreranno in guerra con l’Iran”, parla Stefano Silvestri

«Houthi, Hezbollah, Hamas: Teheran si è servita di un’escalation a metà per far intendere che controlla la situazione. Ma Biden non entrerà in guerra direttamente nonostante le provocazioni»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

1 Febbraio 2024 alle 14:58 - Ultimo agg. 1 Febbraio 2024 alle 16:17

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“Perché gli Usa non entreranno in guerra con l’Iran”, parla Stefano Silvestri

Il rischio di una regionalizzazione della guerra di Gaza. Le difficoltà di Biden e il “pericolo” Netanyahu. E un’Africa sempre più destabilizzata. L’Unità ne discute con uno dei più autorevoli analisti italiani di politica estera e geopolitica: il professor Stefano Silvestri, già presidente dello Iai (Istituto Affari Internazionali) e oggi consigliere scientifico. È stato anche docente sui problemi di sicurezza dell’area mediterranea presso il Bologna Center della Johns Hopkins University e ha lavorato presso l’International Institute for Strategic Studies di Londra.

Il presidente americano Joe Biden ha affermato che sa come rispondere all’attacco che è costato la vita a tre soldati Usa. Professor Silvestri, c’è il rischio di una estensione del conflitto all’intero Medio Oriente?
Una certa estensione strisciante è già avvenuta, soprattutto a causa dell’Iran, che ha alimentato una escalation “by proxy”, usando gli Hezbollah, gli Houthi, Hamas, i vari gruppi che controlla in Iraq e in Siria. È una escalation “a metà”.

In che senso?
L’Iran vuole far intendere che controlla la situazione ma allo stesso tempo non vuole correre il rischio di uno scontro diretto con gli Stati Uniti e soprattutto con Israele, che è poi quello in cui spera Netanyahu, puntando su una forzatura, diretta o indiretta di Teheran che inneschi una guerra regionale tale da mantenerlo al potere. Per tornare agli americani, penso che la reazione degli Stati Uniti sarà più o meno simile a quelle avvenute in passato, cioè eliminazioni mirate, forse con un po’ più di “muscolarità”, ma non credo che s’indirizzeranno direttamente sull’Iran. Finora, la cosa più significativa sono i missili sparati dal territorio iraniano verso il Pakistan, l’Iraq e la Siria. Non hanno colpito basi americane ma si sono esposti dal territorio nazionale, il che fa pensare che in Iran ci sia una fazione del regime desiderosa di rendere la situazione più drammatica, soprattutto per ragioni di politica interna. Il regime è in grossa difficoltà, c’è una opposizione radicata anche se ancora non riesce a darsi una unica espressione politica, tutto questo in vista delle prossime elezioni, certamente controllate, che dovranno preparare l’elezione della nuova Guida suprema. In questo momento la lotta politica in Iran è molto forte e c’è un’ala più estremista che vuole dar fuoco alla polveriera mediorientale per farla deflagrare.

In questo scenario, resta la tragedia di Gaza.
Un disastro. Resto dell’idea che abbia avuto ragione Biden fin dall’inizio a dire agli israeliani che quel tipo di reazione era sbagliata. Non l’hanno voluto ascoltare. Stanno conducendo una guerra che non può portare a nulla. Non può portare a una vittoria. Certo, danneggeranno Hamas ma ammazzare centinaia o anche migliaia di miliziani di Hamas, non significa risolvere il problema della sicurezza d’Israele dal terrorismo. La mia tesi è sempre stata che l’operazione Gaza doveva essere prima di tutto più limitata e poi accompagnata da un’apertura alla soluzione del problema palestinese. È quello che è mancato e che rende estremamente difficile anche le iniziative di tregua portate avanti dai paesi arabi e dagli americani. Al massimo si dialoga sullo scambio di prigionieri, un po’ poco.

Ma queste considerazioni non portano a riflettere su un tema particolarmente delicato: le trasformazioni avvenute in Israele, con una radicalizzazione sempre più marcata a destra?
Indubbiamente c’è stato un marcato spostamento a destra d’Israele. Io la definisco, forse poco gentilmente, la “mediorientalizzazione d’Israele”. Con questa guerra, Israele sta diventando sempre più un paese mediorientale e sempre meno un paese “occidentale” in Medio Oriente. La prevalenza della dimensione religiosa più estrema è una involuzione tipicamente mediorientale. E questo rende la situazione molto difficile. Mettiamo pure che si parli seriamente di una soluzione a due Stati, su spinte esterne, ma c’è una maggioranza in Israele che sia disposta ad accettare una soluzione del genere? E, in aggiunta, c’è rimasta una dirigenza palestinese in grado di sostenere anch’essa una soluzione dei due Stati? Ci siamo arrivati molto vicini con Arafat, ma lui stesso alla fine si è tirato indietro, perché non riusciva a conciliare la soluzione dei due Stati con il problema dell’eventuale ritorno della popolazione palestinese dei profughi del ’48 e dei loro discendenti. Più tempo passa e più la situazione diventa ingovernabile. Non vedo grandi prospettive da questo punto di vista. C’è poi un’altra considerazione da fare, che so suscitare polemiche, perché a volte la verità fa male…

Vale a dire?
Netanyahu ha sempre favorito Hamas rispetto all’Autorità nazionale palestinese. Faceva passare attraverso Israele i finanziamenti ad Hamas. Adesso però ci sono quelli che s’indignano perché hanno scoperto che 12-13 persone dell’Unrwa facevano parte di Hamas: mi sembra un esempio di fariseismo non indifferente. Per anni c’è stata una preferenza pro Hamas nel governo d’Israele rispetto all’Anp, perché l’obiettivo prioritario era appropriarsi della Cisgiordania, mentre Hamas stando a Gaza e negando l’esistenza d’Israele non era un problema, perché non imponeva sacrifici territoriali e un rilancio del negoziato. Un nemico di comodo. Poi sono stati sorpresi dalle dimensioni dell’attacco del 7 ottobre, ma questo può succedere.

In precedenza ha fatto riferimento a Biden. E questo ci porta all’appuntamento elettorale più importante del 2024: le presidenziali di novembre. La nomina di Trump a candidato repubblicano sembra ormai certa, diversi analisti sostengono che lo sia anche il suo ritorno alla Casa Bianca.
Mi auguro di no. Continuo a ritenere che la svolta così marcatamente reazionaria dei Repubblicani non farà crescere il loro consenso elettorale ma al contrario lo diminuirà. Perché non riusciranno a conquistare buona parte del voto indipendente, che è quello che serve per vincere le elezioni. Il voto non repubblicano, non democratico, ma quello del “centro” incerto.
Il problema secondo me è un altro…

Quale?
Trump potrebbe vincere se la gente per sfiducia o insoddisfazione nei confronti di Biden, non va a votare. Un discorso che vale soprattutto per l’elettorato giovanile. Insoddisfazione per il fatto che sia uno scontro tra due vecchietti, in cui Biden, anche se è il migliore tra i due sembra anche il più vecchio, cosa che non è. Se poi la sinistra dei Democratici non va a votare, con quel “tafazzismo” che non ha confini, allora sì che c’è un rischio del ritorno di Trump, e di un Trump ancora più incattivito. Mi auguro e credo che Biden possa farcela, la cosa triste è che Biden è andato alla Casa Bianca annunciando che avrebbe preparato il terreno per un suo successore più giovane. All’atto pratico, un successore più giovane non è emerso. E non è tutta colpa di Biden.

In questo giro d’orizzonte, per chiudere, andrei su un’altra area calda, molto importante per l’Italia: il Mediterraneo e più in generale l’Africa. Fuori dalla propaganda e dall’evocazione in ogni dove, ultimo la conferenza di Roma, del “piano Mattei”, lei come racconterebbe il Mediterraneo oggi?
Il Mediterraneo è un’area estremamente importante come lo è più in generale il rapporto tra Europa e Africa. Detto ciò, è evidente che questo rapporto deve prendere in considerazione la situazione politica che c’è in Africa e che è fortemente analoga a quella mediorientale. È una situazione in cui la stabilità dei governi è estremamente precaria, una situazione caratterizzata da guerre civili, colpi di stato a spiovere e cose di questo genere. La vecchia visione dell’Africa post coloniale, che ancora si reggeva grazie all’appoggio degli ex paesi coloniali ai governi ritenuti più compiacenti rispetto ai propri interessi, sta scomparendo, ma non viene sostituita da un nuovo ordine più “africanocentrico”. Il fatto che i tre paesi golpisti – Mali, Niger, Burkina Faso – abbiano deciso di abbandonare l’Ecowas (la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, ndr) è grave, perché è l’indicazione del fatto che gli elementi di stabilità multilaterale che un po’ potevano aiutare ad uscire da quella situazione, sono anch’essi molto deboli in Africa. Pensiamo poi alla situazione di paesi rilevanti come la Nigeria, che non riesce a controllare il terrorismo jihadista di Boko Haram e delle altre formazioni criminali-terroristiche che controllano vasti territori. Sono tutte situazioni molto gravi. Come lo è il fatto che ancora siano aperte crisi che si protraggono da tempo come quella in Congo o in Rwanda. Ha ragione la politica europea di favorire organizzazioni multilaterali come l’Unione Africana o l’Ecowas, e passare da quelle ad una maggiore “africanocentrità” però stabile e accettabile. Ma siamo ancora molto lontani da questo traguardo. Ed è chiaro che quello che avviene in Medio Oriente si riflette in Africa. Perché quello che avviene in Medio Oriente si trasforma poi in guerra civile in Libia, in Sudan, in tensioni gravissime nei vari paesi del Maghreb, in una situazione di fragilità politica in Egitto, e questi sono tutti paesi africani. La conflittualità attorno ai confini non aiuta a dare soluzione ad altre guerre, tipo quella tra Etiopia ed Eritrea o tra i vari mini stati somali, e tra l’Etiopia stessa e il Kenya. Siamo di fronte a situazioni che non favoriscono sviluppo e investimenti esterni. Pacificazione e stabilità non sono in vista.

1 Febbraio 2024

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