Gli aiuti all'Africa
Piano Mattei è una ipocrisia, una farsa di chi ha depredato un intero continente
Meloni ha parlato di “dialoghi strategici” e “sinergie”, ma all’Africa serve mezzo triliardo, non una manciata di spicci. Se davvero vogliamo aiutarli a casa loro, cancelliamo il debito oggi al 183% del Pil...
Editoriali - di Marco Perduca
Era l’inizio di febbraio del 1998 quando l’associazione (allora radicale) Non c’è pace senza giustizia (quella infamata dal Qatargate) organizzava a Dakar, congiuntamente col governo del Senegal, la prima Conferenza panafricana sulla Corte penale internazionale.
Venticinque Stati erano rappresentati con membri di Governo, il resto con funzionari o diplomatici. Tra le decine di partecipanti internazionali l’allora Commissaria europea Emma Bonino, Louise Arbour, procuratrice dei tribunali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda e Cherif Bassiouni, vicepresidente del comitato preparatorio dell’Onu.
La conferenza mi è tornata alla mente ascoltando la sessione inaugurale della Conferenza Italia-Africa convocata dal governo Meloni in Senato dove ospiti e ospitati (25 ai massimi livelli istituzionali africani) hanno ripetuto, più o meno convintamente, le promesse e le richieste che sempre emergono quando si parla di Africa.
Tali e tante erano le solite cose che a un certo punto il presidente di turno della Commissione africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, rivolgendosi al ministro Tajani, ha detto chiaramente che il suo intervento era la fotocopia di uno pronunciato al Parlamento europeo nel 2017 presieduto quando Tajani stesso. Viva la sincerità.
In apertura, oltre ai discorsi di circostanza, la presidente Meloni ha menzionato cooperazioni (già in corso) con Marocco, Tunisia, Costa d’Avorio e Mozambico, la presidente della Commissione europea von der Leyen è entrata nel merito di alcuni progetti che, almeno nelle intenzioni di Bruxelles, dovrebbero affrontare alcuni dei problemi strutturali in alcuni paesi, mentre la presidente del Parlamento europeo Metsola ha accennato, quasi incidentalmente, al rispetto dei diritti umani, ma per il resto tanti grandi “dialoghi strategici” o “sinergie necessarie” ma di concreto molto poco.
Certo c’è la promessa, ma da confermare con il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti, di impegnarsi per cinque miliardi in “modo complementare”, come ha puntualizzato von der Leyen, con i 100 della Commissione, ma a fronte del necessario mezzo triliardo ipotizzato dall’agenda 2063 dell’Unione africana siamo molto indietro.
Secondo le Nazioni unite nel 2022 il debito pubblico in Africa ha raggiunto gli 1,8 trilioni di dollari. Sebbene si tratti di una frazione del debito complessivo dei paesi in via di sviluppo (circa 15 volte superiore), il debito dell’Africa è aumentato del 183% dal 2010, un tasso quasi quattro volte superiore a quello di crescita del Pil nel continente. Non meraviglia che da oltre tre decenni i paesi africani pongano la cancellazione del debito come questione prioritaria prima di affrontare le altre.
Non sfugge che si può far debito anche per via di politiche scellerate, fatto sta che il suo peso è del tutto insostenibile per le economie africane che dovrebbero (ri)partire. Ma di debito a Roma non si è parlato, come non si è parlato, neanche a latere, di chi era assente e del perché. Solo negli ultimi tre anni gruppi militari hanno preso il potere in Gabon, Niger, Burkina Faso, Sudan, Guinea, Ciad e Mali. Le giunte militari dell’Africa occidentale hanno abbandonato l’organizzazione regionale Ecowas per avvicinarsi alla sfera d’influenza russa.
Pensare al futuro dell’Africa senza tenere in considerazione queste dinamiche e ciò che questo implica per decine di milioni di persone è grave. L’Africa ha oltre il 60% della terra arabile non coltivata del mondo, eppure importa 35 miliardi di dollari di cibo ogni anno, e una popolazione (oltre 1,2 miliardi, in crescita ogni anno del 2%) che al 60% è sotto i 25 anni.
Il continente gode di una delle migliori esposizioni solari del mondo (oltre 300 giorni all’anno) ma i pannelli fotovoltaici sono pressoché inesistenti. Solo un africano su tre ha accesso stabile alla corrente elettrica. Ultimo ma non ultimo dato significativo, l’Africa ha circa il 25% dei malati del mondo ma solo il 3% dei medici. La parola d’ordine è “rapporto paritario e non predatorio”.
Nel dibattito parlamentare di qualche giorno fa, la deputata Pd Lia Quartapelle ha ricordato che la Repubblica italiana non ha mai praticato politiche predatorie, mentre durante il regime fascista ci sono state gravissime violazioni dei diritti umani in Etiopia, Eritrea, Somalia e Libia – violenze di cui non si parla e per cui non sono mai arrivate scuse ufficiali.
Il “piano” italiano, almeno a parole, si ispira a Enrico Mattei che, nel suo opporsi alle “sette sorelle”, le multinazionali del petrolio anglo-americane, “investiva” localmente per ingraziarsi le popolazioni dei paesi dove la sua Eni pompava e scopriva petrolio e gas.
Uno strano modello di “rapporto paritario”. Nessun cittadino africano può venire in Italia legalmente, a meno che non voglia entrare in seminario, le merci africane subiscono dazi e tariffe di ogni genere, con vere e proprie guerre commerciali contro pomodori marocchini o olive tunisine, e per non far arrivare chi fugge da violenze o persecuzioni o povertà teniamo migliaia di persone in campi di prigionia.
Se non è predatorio tutto ciò… Un anno dopo la conferenza radicale di Dakar uscì quello che forse è il libro più politico di Amartya Sen, Nobel per l’economia nel ‘98: “Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia”.
Nella Conferenza in Senato la parola “libertà” non è mai stata pronunciata se non come auspicio per la circolazione delle merci (più nostre che loro), men che meno “progresso”, il fratello politico dello “sviluppo” e della “crescita”, andare incontro alle esigenze di oltre un miliardo di persone senza preoccuparsi minimamente della qualità della loro vita civile e politica è una ricetta che ci ha portato dove siamo oggi.
Il “piano Mattei” si fonda su rapporti tra governi, indipendentemente dal loro tasso di democraticità per perseguire i nostri interessi nazionali facendoci però vedere interessati all’Africa. Quasi come Cina, e con penetrazione minore Turchia, India, Russia, Arabia saudita ed Emirati fanno da 20 anni: donare senza condizionalità oliando le decisioni con corruzioni pubbliche e private presentate al mondo come alternativa realistica all’atteggiamento predatorio delle ex-potenze coloniali.
Sono state finanziate (anche da noi) opere istituzionali faraoniche favorendo indebitamenti fenomenali che non potranno mai esser pagati se non con svendite o confische di asset strategici a favore dei paesi più prepotenti… Insistere con la propaganda nazionalista in questioni internazionali infastidirà i partner europei quanto qualche politico africano più accorto, il solito Faki sempre in plenaria ha lamentato la mancanza di consultazione preventiva lasciando a intendere che alcune delle proposte non erano quelle necessarie.
A febbraio del 2020, qualche giorno prima del lockdown pandemico, un altro gruppo (già radicale), l’Associazione Luca Coscioni, organizzava la VI sessione del Congresso Mondiale per la libertà di ricerca scientifica nella sede della Commissione dell’Unione africana da Addis Abeba con l’obiettivo di discutere del diritto a godere del progresso scientifico e le sue applicazioni in Africa. Il giorno in cui quel congresso si chiudeva l’intera Commissione europea atterrava in Etiopia per due giorni di dialogo strategico con l’omologa istituzione africana.
La pandemia ha messo a dura prova quelle promesse, facendone fallire diverse, ma almeno l’intenzione era lodevole. Oggi l’Italia pare più attenta a sfruttare la sua presidenza del G7 per creare le condizioni per una nuova alleanza politica in Europa, coi conservatori al posto dei socialdemocratici, che ad allargare il fronte di chi nei fatti intende interessarsi fattivamente non tanto dell’Africa o chi la governa quanto di chi ci vive. Continuare a sacrificare i diritti umani sull’altare delle buone relazioni governative bilaterali e il procacciamento di affari tra multinazionali parastatali non è né paritario né non predatorio.