La proposta
L’Onu è inutile, ecco perché serve un Parlamento mondiale
Inutile, inefficace, priva di poteri vincolanti, schiacciata dalla tirannide delle grandi potenze, l’Organizzazione nata dopo la guerra ha fallito. La governance internazionale va ripensata
Editoriali - di Franco Danieli
Ogni riflessione sul “Parlamento Mondiale” deve iniziare da una analisi storica sull’attività e sul funzionamento dell’Onu. Orbene, dalla sua fondazione l’Onu è cresciuta a dismisura diventando un mostro di burocrazia e di privilegi, un ‘buen retiro’ per politici vicini alla pensione e un ambìto luogo di lavoro per diplomatici e funzionari di ogni paese.
Non è raro assistere durante l’esercizio delle funzioni istituzionali ad una torsione delle stesse da parte degli aspiranti candidati, finalizzandole alla precostituzione del futuro incarico secondo il metodo ‘pay to play’; gli incarichi apicali, a prescindere dalle competenze, sono attribuiti secondo un manuale Cencelli intergovernativo.
È sufficiente esaminare l’elenco di agenzie specializzate, fondi, programmi, centri di ricerca etc. per comprendere l’abnorme estensione dell’Organizzazione; in quanto poi a trasparenza amministrativa e finanziaria, opacità e parzialità caratterizzano i bilanci, in particolare per quanto concerne la percentuale del budget realmente utilizzato per le finalità istituzionali.
New York, Ginevra, Vienna, L’Aia, Roma, Parigi, Madrid: già le città in cui si trovano le sedi dell’organizzazione illustrano al meglio le motivazioni della corsa al ‘lavoro’ nelle Nazioni Unite; non credo che ci sarebbe lo stesso entusiasmo se si trattasse di Bamako, Dacca, San Salvador, Dušanbe, Ulan Bator. Una caratteristica che permea tutto il sistema Onu è quella della deresponsabilizzazione; tutto è rimesso alla valutazione degli audit interni, scarsamente efficaci.
Il singolo funzionario quasi mai “paga” per la gestione fallimentare o per il mancato raggiungimento degli obiettivi, è sempre la struttura nel suo complesso a risponderne (rectius: a non risponderne).
Uno dei pochi, esemplari, funzionari dell’Onu che si sono assunti responsabilità dirette è stato Giandomenico Picco (Man Without a Gun), un uomo che nella sua attività ha subìto e respinto autorevoli “avvertimenti” proseguendo in ciò che stava facendo e che riteneva giusto come, tra l’altro, il tentativo di porre fine ad una guerra: “Io andai mentre tutti mi dicevano ‘fai carriera, chi te lo fa fare?”.
Dalla analisi della struttura Onu alla valutazione della sua capacità ed efficacia operativa lo scenario non cambia: la lunga sequela dei fallimenti delle missioni militari, gli scandali di ‘oil for food’ e degli abusi sessuali, lo strabismo geopolitico del Consiglio Diritti Umani, la solitudine dell’Ohchr (Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani), le grida al vento dell’Unodoc (Ufficio contro la droga e il crimine), le incertezze dell’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità), le sovrapposizioni tra Undp, Unep e Unido. Le anacronistiche Upu (Unione postale universale, fondata nel 1874) e Unwto (Organizzazione Mondiale del Turismo).
E poi la lunga lista dei fallimenti militari, o più carinamente di ‘peace keeping, peace making, enforcing’, delle Nazioni Unite. In Ruanda, il generale canadese Dallaire, comandante della missione Unamir, nel gennaio 1994 informò New York dell’arrivo di grossi quantitativi di armi e della preparazione del genocidio chiedendo l’autorizzazione ad azioni preventive di controllo e di disarmo. Il suo superiore Kofi Annan, capo del Dpko (Dipartimento Onu di peacekeeping) rifiutò la richiesta e il risultato fu, tre mesi dopo, di oltre un milione di morti Tutsi.
Kofi Annan proseguì la sua carriera venendo nominato Segretario Generale e insignito del Nobel per la Pace. Anche a Srebrenica l’Onu fallì quando i caschi blu olandesi che dovevano proteggere la città, una delle sei ‘safe area’, la consegnarono al criminale serbo Ratko Mladic che massacrò 8.372 civili musulmani. Possiamo continuare con i fallimenti in Somalia, Darfur, Yemen, ma servirebbero volumi. Delle poche missioni militari di successo vanno citate Timor Est, la Cambogia, la Namibia, il Mozambico.
L’Assemblea Generale dell’Onu può affrontare qualsiasi problema e può formulare raccomandazioni senza efficacia vincolante sia agli stati membri sia al Consiglio di sicurezza, ma se si tratta di questioni già all’esame del Consiglio stesso non può farlo ex art.12 della Carta (e basta solo questo per capire come la definizione dell’Assemblea di ‘principale organo deliberativo, politico e rappresentativo delle Nazioni Unite’ sia inverosimile).
Dei tre mesi di durata dell’Assemblea Generale, la ‘high-level week’, quella dei Leaders, (che è stata, con grande acutezza, paragonata alla ‘settimana della moda’) è l’unico momento di cui si ha una qualche pubblica notizia. Per una volta l’Assemblea provò ad assumere poteri propri e vincolanti con la risoluzione ‘Uniting for Peace’ adottata il 3 novembre 1950 nell’ambito della crisi coreana ma si trattò di un evento eccezionale tanto che oggi quel precedente non si considera come l’atto di avvio di una norma consuetudinaria nel diritto internazionale.
In conclusione le risoluzioni dell’Assemblea Generale possono essere equiparate in quanto a valore ad atti di indirizzo come gli ‘Ordini del Giorno’ del Parlamento italiano: il Nulla! Lo stesso Segretario generale Antonio Guterres nel 2021 denunciò: “Il sistema multilaterale di oggi è troppo limitato nei suoi strumenti e capacità in relazione a ciò che è necessario per un governo efficace della gestione dei beni pubblici globali”.
Dopo la fallimentare esperienza della “Società delle Nazioni” si diede vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite; ma sin dalla sua origine, la conferenza di Dumbarton Oaks del 1944, l’Onu è la fotografia della situazione post conflitto bellico; le basi della futura organizzazione furono infatti poste dai quattro alleati contro l’Asse: Usa, Gran Bretagna, Repubblica di Cina e Urss, con la Francia inizialmente esclusa.
L’Onu è semplicisticamente (ed erroneamente) considerata come l’ambito principale del multilateralismo, ma la sua origine, la sua struttura, l’articolazione dei poteri decisionali smentiscono in maniera netta questo “luogo comune”. In realtà in essa si manifestano i rapporti di forza e gli interessi nazionali delle cinque potenze, raramente attraverso intese, frequentemente attraverso boicottaggi e veti; nei fatti è il luogo del pentalateralismo o più correttamente del trilateralismo.
Il potere di veto attribuisce una posizione dominante ed egemone ai cinque membri permanenti rispetto a tutti gli altri Stati aderenti, istituzionalizzando in tal modo l’ineguaglianza giuridica fra Stati e fondando la legittimità delle azioni del Consiglio di Sicurezza sui soli rapporti di forza e sugli interessi nazionali dei ‘Big Five’.
Questa organizzazione è in grado di assumere decisioni efficaci solo quando i suoi cinque membri permanenti sono d’accordo, in tutti gli altri casi è bloccata come è oggi per l’Ucraina o per il genocidio a Gaza.
È utile ricordare che già a Dumbarton Oaks si discusse sull’uso del diritto di veto, prevedendo l’astensione dal voto nel caso di coinvolgimento diretto nella controversia di uno dei membri del Consiglio di Sicurezza, permanenti inclusi: “…a party to a dispute should abstain from voting”; ma non fu raggiunto un accordo e la questione fu demandata e decisa nel vertice di Yalta del febbraio 1945 con la esclusione dell’obbligo dell’astensione.
La natura intergovernativa dell’Onu, la ‘rigidità’ della Carta che ai sensi degli artt. 108 e 109 subordina ogni sua modifica alla volontà dei membri permanenti, la mancata devoluzione di parziale sovranità nazionale, la sostanziale assenza di poteri coercitivi, se non quando adottati in base alle mediazioni geopolitiche del CdS, i limitati poteri dell’Assemblea Generale… tutto questo e in definitiva l’assenza di un potere politico investito dalla legittimazione popolare, non consente di definire l’Organizzazione come istituzione sovranazionale di ‘governance’ mondiale.
In una sempre maggiore ed inevitabile condizione di interrelazione e di interdipendenza globale (tra Stati, società, processi produttivi, economie, culture…) e di impatto sull’intero pianeta dei fenomeni naturali estremi determinati dall’attuale modello di sviluppo appare evidente la parzialità delle soluzioni adottate dagli Stati – da quelle neoisolazioniste fondate sulla pseudo sicurezza fornita dai confini fisici alle decisioni dei summit mondiali senza poteri cogenti rispetto alle obbligazioni assunte dai partecipanti.
La persistenza di relazioni tra Stati secondo prassi proprie dei secoli passati non lascia prefigurare una possibile modifica dell’Onu sia per quanto riguarda la sua democratizzazione sia per quanto concerne la capacità decisionale e l’efficacia dell’azione.
Ad oggi la forma più avanzata di rappresentanza democratica dei popoli è quella del Parlamento Europeo, che seppure attraverso grandi difficoltà e ostacoli è riuscito nel corso degli anni ad acquisire un potere di codecisione con il Consiglio Europeo.
Immaginare un Parlamento Mondiale è necessario, così come è necessario pensare a soluzioni realistiche per la sua realizzazione. La creazione di un Parlamento Mondiale, nelle attuali condizioni, potrà avvenire solo su una iniziativa condivisa degli Stati, per cui non avverrà.
Occorre quindi avviare un percorso che crei le condizioni per la sua realizzazione incominciando a collegare fra loro in una struttura permanente, Ong, movimenti sociali, Governi Locali… in un processo di disseminazione transnazionale della ‘Democrazia’, elaborando una ‘Costituzione della Terra’ (come efficacemente proposto da Luigi Ferrajoli), superando la precarietà dei ‘Forum sociali mondiali’ e contrapponendosi alle resistenze degli Stati nella cessione di sovranità ad una reale organizzazione di governo mondiale.