Il caso Acca Larenzia
La Patria che amiamo esiste e va difesa dai fascisti
I protagonisti della lugubre adunata di Acca Larenzia non sono solo “200 imbecilli” ma dei traditori della patria. Di quell’unica patria che oggi possiamo amare e di cui siamo orgogliosi: questo vorrei sentir dire dalla premier.
Editoriali - di Filippo La Porta
Sul valore del concetto di patria possiamo avere idee diverse. So ad esempio che il direttore di questo giornale se ne mostra assai scettico. Tuttavia mi chiedo: la “patria” che ho in testa io, o Carlo Levi quando nel 1960 scrisse Un volto che ci somiglia, è proprio la stessa di chi ci governa? Credo che la questione della liceità del saluto romano vada oltre le dichiarazioni di antifascismo e riguardi proprio l’idea di patria, di cui ora provo a ragionare.
La patria – di cui la nazione è una generazione che storicamente contiene in sé i germi bellicistici e colonialistici (per Umberto Saba la patria sta alla nazione come la salute alla nevrosi) – è anzitutto la propria lingua, quella che abitiamo prima di qualsiasi altro luogo. Perciò i migranti che scrivono romanzi e poesie in italiano vanno considerati italiani per elezione!
Raffaele La Capria diceva che ogni volta che scriveva una frase in italiano, bella ed equilibrata nelle sue parti, semplice, elegante ed armoniosa, si sentiva un patriota. Rifaceva l’Italia! Poi, oltre a essere la lingua è un sentimento di appartenenza. Ora, Piero Calamandrei la identificava con un “senso di vicinanza e intimità”.
Si potrebbe obiettare che io posso sentirmi “intimo” a qualsiasi essere umano, di qualsiasi paese, se condivido con lui certi valori, o una certa sensibilità. Però è anche vero che con quelli che abitano nel mio territorio mi sento immediatamente “intimo”, poiché mi ritrovo ad avere in comune una tradizione, un passato culturale. Il punto è: quale tradizione? Quale passato culturale? Occorre scegliere quale patria vogliamo, quale appartenenza scegliamo fra le innumerevoli che il nostro passato pure ci offre.
E allora: c’è l’umile Italia di Virgilio e di Dante, e poi di Carlo Levi, che diceva che ciò che ci tiene uniti non è un patto sociale o una tradizione militare ma il senso della bellezza, il rapporto con l’arte, da Giotto e Cimabue, tanto che per lui la produzione artistica ha quasi forgiato i volti e le figure dei nostri connazionali (non sempre, naturalmente…).
E intendeva per “bellezza” non un ornamento ma una intera civiltà, un modo di vivere, di essere. È una Italia conosciuta in larga parte del mondo come un paese fondato perlopiù su benevolenza, ospitalità umanità. Ho conosciuto molti migranti che mi hanno detto di studiare volentieri la nostra lingua anche perché era molto meno legata a un passato coloniale.
Certo, “Italiani brava gente” è uno slogan vuoto, falso e un mito imbevuto di retorica (per dirne una: l’Italia usò i gas – proibiti nel 1938 da accordi internazionali – prima in Libia e poi in Etiopia, su ordine di Mussolini, ovviamente in nome di “supreme ragioni di difesa”!), ma ciò non vuole dire che non possiamo sforzarci di aderire a quella immagine e di rendere vero quello slogan, ogni giorno.
L’Italia ideale di Levi, cementata dall’amore per la bellezza, è un altro mito civile, che ci proviene essenzialmente dal Rinascimento e che nella nostra convulsa modernizzazione abbiamo più volte smentito (disponiamo probabilmente della televisione più brutta e volgare del mondo): ma può essere un mito fertile, una idea regolativa capace di ispirare oggi il nostro comportamento. Nel nostro passato c’è anche un’altra Italia, per niente umile e accogliente, ed è quella animata dall’odio, dal disprezzo verso il diverso, dalla xenofobia.
Quella della repubblica di Salò, uno stato fantoccio al servizio dello straniero. Una Italia di cui personalmente mi vergogno, così come mi sono vergognato a leggere i commenti sulla stampa estera a proposito della fotografia di Acca Larenzia. Ad esempio in Germania, dove i conti con la loro “patria” più orrenda e impresentabile li hanno fatti radicalmente, e dove forse oggi i veri patrioti sono i Verdi, che dimostrano nei fatti di amare la loro patria prendendosi cura del paesaggio (bisogna pur dimostrare di amare il proprio paese).
Dunque i protagonisti della lugubre adunata di Acca Larenzia non sono solo “200 imbecilli” ma dei traditori della patria. Di quell’unica patria che oggi possiamo amare e di cui siamo orgogliosi. Questo vorrei sentir dire dalla nostra premier.