Il parlamentare dem
Intervista a Piero De Luca: “L’Italia ha bisogno di un Pd forte, non di un partito senza identità”
Una organizzazione movimentista e senza identità, senza radici - sostiene il coordinatore dell’area Bonaccini - non serve a nulla. Lotta alle diseguaglianze, diritti di cittadinanza e unità nazionale: questa è la road map
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Piero De Luca, parlamentare Dem, membro della Direzione nazionale del PD, non è uso al “politichese”, va dritto al punto. Con Simona Malpezzi, Piero De Luca è coordinatore nazionale di Energia popolare, l’area del Partito Democratico che fa capo a Stefano Bonaccini.
Intervenendo nel dibattito avviato da questo giornale con un’intervista a Beppe Vacca, Nadia Urbinati ha affermato: “I partiti, Vacca ha ragione, hanno fatto la democrazia, per poi essere sottoposti, anche per gli errori commessi e i limiti di rinnovamento delle classi dirigenti, al pubblico ludibrio. Ma la democrazia del pubblico sta dimostrando il peggio di sé: essa genera plebiscito quotidiano, rende il populismo una forma funzionale di rappresentanza e apre la strada a forme autoritarie. L’Italia è un libro di testo”.
Stiamo attraversando un momento difficile per la democrazia. A livello internazionale, con gli attacchi di regimi autocratici alle fondamenta stesse dei nostri valori. Ma anche a livello nazionale per un vero e proprio “corto circuito” tra politica, partiti e democrazia. Da un lato, infatti, è evidente che negli anni i partiti si sono sempre più indeboliti, chiusi in logiche autoreferenziali di gruppi dirigenti lontani dalla realtà, attenti alla propria sopravvivenza, ai sistemi elettorali come ricorda Vacca o alla burocrazia interna. Dall’altro questo indebolimento è stato alimentato da una costante delegittimazione della politica stessa, con campagne che hanno aperto la strada ad una slavina populista devastante per la tenuta della democrazia, in Italia ma non solo. Basti pensare alla vicenda di Trump negli Stati Uniti.
In che modo si intrecciano queste dinamiche che minano la democrazia?
La debolezza dei partiti è una delle ragioni principali della fragilità della nostra democrazia. Anzitutto, i partiti hanno perso quel ruolo di luoghi di riflessione e di dibattito culturale per interpretare una società che ha visto uno sconvolgimento, con classi sociali scomposte e riferimenti storici non più esistenti. I partiti devono recuperare la funzione di strumenti e luoghi di confronto su idee e programmi, su cui fondare progetti di governo delle comunità, con l’ambizione di cambiarne il destino e migliorarne la qualità della vita. Questo tocca anche il PD. A questo lavoro va aggiunta anche l’esigenza di selezionare una classe dirigente radicata sul territorio, preparata e competente, cui si sono preferite troppo spesso negli anni figure scelte alla logica del “più fedele al capo” piuttosto che del “più bravo, capace e competente”, per riprendere le parole di Nadia Urbinati. Senza questo cambiamento non riusciremo ad invertire la rotta di quel continuo “astensionismo civico” che ha ormai un carattere strutturale preoccupante. Le leadership in questo contesto rischiano di sostituire in pieno il vuoto o la debolezza dei partiti.
Qual è la sua idea al riguardo?
Nell’attuale contesto sociale il o la leader rappresenta un elemento di identità, sintesi e semplificazione del messaggio politico. Ha un ruolo rilevante. È un dato di fatto e bisogna farne i conti. Altra cosa, però, è cedere all’idea di partiti puramente leaderistici o di derive plebiscitarie con un uomo o una donna sola al comando. Almeno per il PD questo dev’essere chiaro. Noi abbiamo una storia importante, una comunità fatta di militanti, amministratori che va ascoltata, valorizzata e tenuta in considerazione, nel rispetto del pluralismo e della ricchezza che offre.
Ma cosa è cambiato negli anni per cui i partiti faticano tanto? Beppe Vacca ha sostenuto che il primo punto di fragilità della sinistra sta nel paradigma stesso che fu alla base della nascita del Pds, prim’ancora che del PD: quello della disintermediazione.
È cambiata la società che oggi è liquida, post-ideologica, muta e si evolve velocemente. La scelta della nascita del Pds rispondeva ad un’esigenza della storia dopo il crollo delle ideologie. Oggi, tuttavia, dopo le varie evoluzioni, è ancora incompiuto il percorso per un’identità forte del PD ed è il lavoro da fare insieme. Certo è un tema che riguarda in generale i partiti. Vivono di alti e bassi in un mondo caratterizzato da un eccesso di informazioni e allo stesso tempo da un vuoto di conoscenza. È l’era dei social e dei sondaggi che però, come ha ricordato lo stesso Presidente Mattarella nel suo messaggio di fine anno, “non sono la democrazia”. Una bulimia di messaggi continui e diretti, di slogan vuoti che parlano alla pancia hanno fatto saltare il ruolo di intermediazione delle forze politiche tradizionali. Il compito più difficile oggi spetta alla sinistra.
Ci spieghi meglio.
In tanti Paesi europei fatica a trovare una sua linea programmatica, identitaria, che porti ad ottenere la fiducia della maggioranza dei cittadini. Le crisi e le guerre in corso stanno alimentando nazionalismi di destra, che offrono risposte semplicistiche ai cittadini, spesso irrealizzabili e contrastanti con diritti e libertà fondamentali, ma più efficaci da un punto di vista emotivo e comunicativo. È urgente che il mondo progressista trovi una chiave di analisi della realtà e una piattaforma in grado di sintonizzarsi con le comunità per costruire una risposta politica seria ed efficace.
In questo quadro come si colloca il PD?
Penso che quello che serva sia un PD a vocazione maggioritaria, volto a rappresentare tutta la società italiana e non pezzi limitati di essa. Se non vuole perdere il suo profilo costitutivo. La funzione storica del PD, infatti, è la capacità di tenere insieme culture plurali, socialiste, progressiste, riformiste, liberali, cattolico democratiche. Questa è la sua ricchezza, non la sua zavorra. Così come lo sono i suoi amministratori locali e i tanti militanti radicati, la cui presenza sui territori è una forza essenziale che va sostenuta e rafforzata, non osteggiata. Insomma, non possiamo permetterci un partito liquido, movimentista. Bisogna lavorare per ricostruire una comunità solida, in grado di fornire un’alternativa di governo credibile ad una destra pericolosa. Ciò implica anche la necessità di rafforzare il nostro profilo identitario, battendo anzitutto sui nostri temi storici.
Quali?
La lotta alle diseguaglianze e diritti di cittadinanza come lavoro, scuola, sanità e servizi pubblici, la tenuta dell’unità nazionale. Bisogna altresì analizzare le ragioni di alcuni interrogativi irrisolti, come comprendere perché tanti operai o periferie votano a destra. Serve, poi, affrontare le nostre battaglie in linea con le evoluzioni della società. Il salario minimo per legge sarebbe una riforma di civiltà fondamentale. Non dobbiamo perdere di vista al tempo stesso le difficoltà economiche e sociali di piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, autonomi, partite iva, spesso giovani senza tutele, o nuovi lavoratori delle piattaforme digitali. È, infine, necessario uno sforzo anche su temi per noi poco esplorati, ma molto sentiti, come la sicurezza, ad esempio. È un argomento sul quale bisogna elaborare proposte serie ed efficaci, con i valori, la cultura e la sensibilità della sinistra, senza lasciare campo libero alla destra.
Enrico Morando, sempre su l’Unità, si è detto “esterrefatto per la sostanziale liquidazione dell’istituto delle primarie, addirittura sostituite per la scelta dei candidati Presidenti delle Regioni da poco trasparenti trattative romane”.
Le primarie sono uno strumento e non un fine in sé. Rappresentano una modalità efficace di selezione di leadership e candidati laddove la conservazione dell’esistente impedisce ogni possibilità di rinnovamento. Sono utili soprattutto quando gli organismi di partito non riescono ad individuare una candidatura unanime o quando possono agevolare la costruzione di coalizioni tra forze che altrimenti fanno fatica a ritrovarsi su un nome condiviso. Hanno il merito di poter ampliare la base di riferimento anche alla società civile. L’obiettivo ultimo delle primarie è quello di rafforzare ed allargare il campo progressista. Non è tollerabile decidere però se utilizzarle o sostituirle con trattative politiche a seconda delle convenienze del gruppo dirigente di turno.
Si sbaglia nell’affermare che più che sui grandi temi come la pace, la lotta alle disuguaglianze, il PD sia più impegnato a discutere sulle alleanze, in particolare sul rapporto di odio-amore con i 5Stelle di Conte?
Non mi appassiona il dibattito politicista delle alleanze a tavolino, costruite in laboratorio, né la discussione sulle alleanze prima di quella sulla nostra identità e linea politica, ancora oggi per tanti versi non del tutto chiara. Certo non possiamo permetterci la presunzione dell’autosufficienza se vogliamo sconfiggere la destra. Ma le alleanze vanno costruite su programmi condivisi, altrimenti si rivelano irrealizzabili o poco credibili. Un campo alternativo di governo va costruito su un progetto comune. E soprattutto a schiena dritta, chiedendo attenzione per i nostri militanti e dirigenti, consapevoli che il PD è e resta il baricentro di un campo di centrosinistra alternativo alla destra anti italiana che abbiamo al Governo. Per questo, in questa fase è necessario che il PD si concentri su come rafforzare la propria identità, in vista delle elezioni europee, a partire proprio dal tema dell’integrazione dell’Unione. Noi crediamo che le soluzioni ai problemi dei nostri cittadini richiedano risposte europee. Bisogna rafforzare l’Unione per affrontare al meglio le sfide economiche, lavorative, sociali, sanitarie, energetiche, gli impegni per lo sviluppo sostenibile, così come l’azione in politica estera, di difesa e sicurezza comune, per maggiore autorevolezza sulla scena internazionale, anche come attore diplomatico e di pace. Sulla scia dell’eredità di uno straordinario democratico come David Sassoli, il nostro obiettivo dev’essere quello di realizzare il sogno degli Stati Uniti d’Europa.