Lotta di classe e democrazia

Intervista a Nadia Urbinati: “La democrazia dell’audience è la porta dell’autoritarismo”

«Clic e sondaggi non sono democrazia dei cittadini, la disintermediazione li lascia senza voce. In Italia paghiamo le conseguenze di una lunga tradizione di antipartitismo. Ma non riguarda solo noi: guardate l’America con Trump...»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

27 Dicembre 2023 alle 15:30

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La politologa Nadia Urbinati
La politologa Nadia Urbinati

Dalla democrazia dei partiti alla democrazia dell’audience. Una riflessione storico-politica che l’Unità ha aperto con l’intervista a Beppe Vacca. Un dibattito che s’intreccia con quello avviato da Paolo Franchi sulla lotta di classe e l’identità smarrita della sinistra. Abbiamo intervistato Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York, che di questo tema ha iniziato ad interessarsi da alcuni anni.

In una intervista a l’Unità, Beppe Vacca ha sostenuto che le ragioni della debolezza della sinistra vanno ricercate più sul piano storico-politico e culturale che nel radicamento sociale.
Anzitutto va rilevato che questo fenomeno non si manifesta solo in Italia ma in tutti i paesi occidentali. Ci sono paesi dove è più marcato che in altri. Paesi di più recente democratizzazione, come per esempio la Spagna e il Portogallo, hanno ancora un buon sistema dei partiti, mentre paesi che hanno al loro attivo qualche decennio in più di democratizzazione mostrano l’usura della democrazia dei partiti, con l’eccezione della Germania.

Da cosa scaturisce questa “eccezionalità” tedesca?
Perché ha costituzionalizzato i partiti, perché ha mantenuto il finanziamento pubblico, perché ha tenuto distinti e legati partiti e fondazioni (che sono fucine di idee, di progetti), perché ha una classe lavoratrice ancora robusta e sindacalizzata. Essere la locomotiva d’Europa ha significato preservare più solidamente l’incorporazione socio-economica dei partiti politici che non sono solo macchine elettorali. Per tornare alla domanda iniziale, va tenuto conto di diversi fattori, due in particolare: a) le trasformazioni avvenute sul terreno della comunicazione, con l’affermarsi dei social media; e b) la globalizzazione imperante che ha di fatto eroso i poteri degli Stati nazionali (in particolare quelli medi e non imperiali), depotenziando le loro politiche in materia economica e finanziaria. E’ entrato in crisi il modello westfaliano, un ordine internazionale fondato su sovranità autonome e indipendenti. Ecco il problema che ci interessa: se i governi non hanno piena autonomia nel cercare e impiegare risorse pubbliche, fare politiche fiscali redistributive, diversificare gli investimenti, i partiti mostrano una evidente crisi di funzionalità, perché la loro competizione ha una stretta gamma di possibilità. Che cosa possono promettere di tanto diverso i partiti se sanno di avere veti che non possono superare? E’ una forma politica di integrazione stato-società a franare insieme alla democrazia dei partiti. In questo contesto deve essere situato il successo del populismo, con la sua propaganda anti-establishment o anti-casta.

Ad esempio?
Penso agli Stati Uniti, dove anche il partito più antico e consolidato, il partito Repubblicano, è sfasciato, conquistato da un personaggio esterno alla politica, Donald Trump, che ha cannibalizzato l’intero partito e, soprattutto, trasformato la politica elettorale del paese intero. Quindi, si tratta di un mutamento che riguarda sia i contesti specifici che i fenomeni globali: tutto questo insieme aiuta a capire il declino delle intermediazioni politiche, che non si impongono per volontà. Non basta volere un partito per avere un partito. Ora, è difficile individuare la direzione del mutamento che è sotto i nostri occhi e che resiste alle categorie classiche della democrazia rappresentativa costituzionale.

Afferma Vacca che il primo punto di fragilità della sinistra sta nel paradigma stesso che fu alla base della nascita del Pds, prim’ancora che del Pd: quello della disintermediazione, vale a dire il passaggio, cito testualmente “ dall’idea di una democrazia dei partiti all’idea di una democrazia dei cittadini.”.
Vacca tocca un punto importante dell’oggi, che riguarda la democrazia dell’audience molto più che dei cittadini. I cittadini (per lo meno la grande maggioranza di essi) non hanno voce o potere di influenza, proprio perché è venuta meno l’intermediazione. Sono i cittadini dei clic e dei sondaggi, testati ogni sera per sapere chi sta con Meloni o con Schlein. Questa non è democrazia dei cittadini. E’ democrazia dei sondaggi, cioè del pubblico costruito dai media di riferimento, che sono ormai i principali manovratori delle campagne elettorali e della fortuna o sfortuna dei candidati. Si tratta di una evoluzione interna al fenomeno individuato già alla fine degli anni ’70 come “democrazia del pubblico”, e che Bernard Manin ha teorizzato come un’interna trasformazione della democrazia, dalla centralità dei partiti a quella dell’audience. A partire da questa analisi fattuale, le valutazioni mostrano differenze non secondarie.

Quali, professoressa Urbinati?
Per i teorici della democrazia minimalista o realista (“schumpeteriania”), questa trasformazione non è necessariamente negativa, in quanto i partiti si sostituivano alle opinioni dei cittadini imponendo le proprie opinioni. Lo stesso Manin era convinto che la democrazia del pubblico avrebbe riportato la voce dei cittadini al centro, senza distorsione partigiane. In realtà, è successo l’opposto. E oggi lamentiamo la polarizzazione identitaria che i media tendono ad esasperare e che sfugge al dominio dei partiti. Proprio per la pessima prova di sé che la democrazia dell’audience sta dando, i partiti si rivelano, dopo essere stati per anni oggetto di disprezzo, fondamentali supporter della democrazia. In Italia patiamo le conseguenze di una lunga tradizione di antipartitismo, che ha tenuto a battesimo l’affermarsi del fascismo negli anni ’20, per ripresentarsi addirittura in Assemblea costituente con il Fronte dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Nel nostro paese l’antipartitismo è incorporato nel processo di democratizzazione, a partire dallo stato liberale prefascista, e si è sedimentato nella stessa democrazia dei partiti, fin dalla sua origine. L’antipartitismo non è mai morto. Né si è manifestato all’improvviso. E’ stato nei tre decenni della ricostruzione postbellica sotto traccia, fino a quando i partiti erano forti abbastanza da gestire lo spazio e il discorso pubblici, dentro e fuori le istituzioni. In Italia, la crisi dei partiti è precedente a Tangentopoli, come si vede dai convegni e dai dibattiti che su questo tema si sono svolti numerosi a partire dagli anni ’70. L’antipartitismo celebrato da Beppe Grillo, con il suo “vaffa” gridato nelle piazze, e prima ancora dalla Lega, che scatenò una campagna contro “Roma ladrona” dei partiti. Certo, si tratta di un fenomeno non solo italiano. Trump ha fatto il suo ingresso in politica all’insegna dell’antipartito e prima di lui Ross Perot. I partiti, Vacca ha ragione, hanno fatto la democrazia, per poi essere sottoposti, anche per gli errori commessi e i limiti di rinnovamento delle classi dirigenti, al pubblico ludibrio. Ma la democrazia del pubblico sta dimostrando il peggio di sé: essa genera plebiscito quotidiano, rende il populismo una forma funzionale di rappresentanza e apre la strada a forme autoritarie. L’Italia è un libro di testo.

In questa democrazia dell’audience, esiste ancora uno spazio per il conflitto sociale o meglio ancora, per dirla con Paolo Franchi, per la lotta di classe?
Se per lotta di classe intendiamo quella associata ad una filosofia della storia, è certamente finita. Qualche anno fa ho scritto un libro, I pochi contro i molti, in cui esordivo dicendo che il Ventunesimo secolo si era aperto con numerose ribellioni e rivolte ma senza conflitti politici. Il conflitto politico ha bisogno di un organizzatore, di una strada da seguire, di trattative, di compromessi e di soluzioni, per vie elettorali o per negoziazioni. Questo tipo di conflitto (che è strategia politica democratica) è venuto meno, perché sono decaduti gli attori principali, che sono i partiti e insieme ad essi le associazioni di categoria nella società civile. E su questo credo che valga la pena soffermarsi.

Facciamolo.
Noi diamo per scontato che la democrazia sia una forma politica. E facciamo bene. Istituzioni, procedure, elezioni, partiti, decisioni nei luoghi istituzionali. Ma nella società moderna in cui i cittadini sono individui oggetto di diritti civili e agenti sociali del loro sostentamento (lavoratori) c’è una dimensione, quella extraistituzionale, dove si forma il consenso, che è fondamentale e non può essere facilmente dissociata da quella istituzionale. Prendiamo ispirazione da Alexis de Tocqueville: perché la democrazia moderna non diventi una forma di apatia e dispotismo dell’opinione, è necessario che si formino libere associazioni, di categoria, di cooperazione, e politiche-partitiche. Queste danno potere agli individui dissociati e rompono il consenso dell’opinione. Oggi non sono decadute tutte le intermediazioni. Affermare questo sarebbe un errore madornale. Alcune sono decadute, altre si sono rafforzate. E’ la diseguaglianza di potere di influenza (quindi associativo) che ci deve interessare e preoccupare. Quella parte di società che ha più interessi “vestiti” ovvero corposi, ha anche forti organizzazioni di riferimento. Sono quelle parti di società che vanno a votare, che hanno referenti politici e rappresentativi chiari. Ma l’altra parte di cittadinanza resta fuori, indebolita nella forza associativa, composta, per usare le parole di Tocqueville, di cittadini “dissociati”. L’individuo dissociato e orizzontale, è oggi l’anello debole, perché la sua voce non si sente e non arriva dove dovrebbe arrivare. E’ così negli Stati Uniti come anche in Francia o in Italia. La società è divisa in due grandi gruppi: una parte è ben organizzata secondo intermediazioni tradizionali, diventate a questo punto un privilegio, perché fortemente selettive socialmente e con agganci politici forti; e l’altra parte è dis-intermediata e fatta di individui socialmente soli, e che cerca forme di autodifesa autonome; in alcuni casi può dar luogo a rivolte (pensiamo alla Fracia del gilet gialli), in altri può alimentare leader e movimenti populisti e plebiscitari. Dove il “popolus” si fa “plebe” senza una rete associativa e organizzativa, senza “partes”, si costruiscono forme aggregative centralizzate, come quelle populiste. In buona sostanza, proporrei una distinzione tra popolo “dissociato” e popolo “associato”.

Questa chiave di lettura non dovrebbe permeare una cultura di sinistra, della sinistra?
Dovrebbe. Invece, i suoi leader e intellettuali, una volta decaduta la dimensione ideologica classista hanno avuto difficoltà a intraprendere altre letture sociali e si sono concentrati sul sistema elettorale. La sinistra in Italia in particolare, forse perché è stata per lungo tempo tenuta in “esilio” a causa della Guerra fredda, con un sistema elettorale proporzionale, che l’ha resa abbastanza forte come opposizione ma non a tal punto da poter governare e fare coalizioni maggioritarie. Una volta caduto quell’ordine internazionale, il sistema proporzionale venne indicato come primo responsabile della mancanza di alternanza politica (una lettura miope). Del resto, i partiti, non più corazzati dal dualismo ideologico della Guerra fredda, optarono per sistemi elettorali che li aiutassero ad avere per artificio quella forza che non avevano più per consenso. Dunque, il vecchio sistema pluralistico proporzionale non soddisfaceva più, soprattutto quella parte che per quarant’anni non ha mai governato. Tra i sostenitori del superamento del proporzionale c’erano anche tanti comunisti, molti dei quali erano per il maggioritario e anche per il doppio turno presidenziale, sul modello francese. Numerosi e persistenti i tentativi di andare oltre il pluralismo proporzionalista (identificato anche come “frantumazione politica”). Questo processo precedette la nascita del Pds. Leggendo testi di convegni tra la fine degli anni ’70 e la metà anni ’80, s’intuiscono già processi che vanno verso forme di “governabilità” più spiccata, maggioritaria e presidenzialista. Detto questo, c’è un vulnus reale all’interno della nostra sinistra, che ha pensato, in maniera sconsiderata (su questo sono pienamente d’accordo con Vacca) di risolvere il problema con il “maggioritario” come sostitutivo di “coalizionabile”. Maggioritario mono-partitico e maggioritario “di coalizione” sono due forme di strategie dell’alternanza. Il secondo è ovviamente più impegnativo perché se i partiti non sono sufficientemente forti, o abbastanza sicuri di sé e del proprio elettorato, stentano a creare coalizioni. I partiti più strutturati le creano più facilmente (pensiamo alla DC e ai suoi satelliti). Il paradosso fu quindi questo: l’indebolimento dei partiti ha reso la “coalizzabilità” un’ipotesi non desiderata. I partiti deboli come le sigle post-Pci hanno dunque pensato di rafforzarsi artificialmente con un sistema elettorale maggioritario mono-partitico (il Pd del Lingotto ha addirittura messo questo progetto nel proprio statuto). E hanno contribuito a creare sistemi elettorali pasticciati che dovevano in teoria agevolare un maggioritarismo “solitario”. Tutti i partiti vogliono, prevedibilmente, conquistare la maggioranza. Maggioranza di un partito solo oppure maggioranza di coalizione? Dal momento in cui è finito il Pci e si sono succedute diverse formazioni politiche di centro-sinistra, si è andati gradualmente verso il maggioritario. Ma come partito, non come coalizione. E questo è stato sconsiderato.

Perché, professoressa Urbinati?
Perché è un’astrazione. Avendo un partito del 15% o anche 25% non è comprensibile come si possa immaginare un maggioritarismo mono-partitico. Anche con il 30% ci sarebbe del resto bisogno di coalizzarsi. Perché una tale resistenza alla strategia della coalizione? Un’intera generazione del Pd si è formata su questa idea malsana. Si tratta di una debolezza analitica e di leadership, che ha fagocitato questa idea astratta. Si tratta anche di un approccio anti-parlamentarista (e ben disposto verso il premier forte e il presidenzialismo) che vede di cattivo occhio gli accordi, le alleanze. Secondo me un peccato originario della sinistra post-tangentopoli. E’ vero quindi, e anche su questo concordo con Vacca, che si è pensato di mettere una pezza per riparare a una frattura. Le condizioni per cambiare i sistemi elettorali non sono indifferenti. Non si può realizzare tutto quel che piace. Mi spiego: se hai un sistema pluralistico, determinato dal proporzionale, e vuoi ad un certo punto modificare il sistema con una “soglia”, devi tener conto del fatto che a decidere sul valore numerico della soglia sono anche i piccoli partiti, che non hanno alcuna intenzione di scomparire. Il proporzionale con la soglia di sbarramento lo si può stabilire molto meglio prima che gli attori conoscano la loro forza: quando, per ripetere John Rawls, essi possono ragionare da dietro il “velo d’ignoranza”. Ma quando le parti sanno quel che hanno e possono perdere, a quel punto è difficile stabilire il valore della “soglia”. E’ qui che si manifesta il significato del maggioritario per coalizione. La sfida, anche analitica, è capire quale potrebbe essere il modo migliore per avere stabilità e pluralismo, se per via di solitaria maggioranza o di coalizionabilità. Noi siamo ancora, dopo la fondazione del PD, di fronte ad una reale incapacità di pensare al partito in termini di coalizione e questo penalizza il fronte delle opposizioni.

27 Dicembre 2023

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