Il dibattito su salario minimo
Intervista a Christian Ferrari (Cgil): “La sinistra deve sfondare sui salari”
«Un’emergenza da affrontare attivando tutte le leve a disposizione: il rinnovo dei contratti nazionali, politiche economiche e fiscali redistributive, il rilancio del welfare pubblico e universale»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Lo scontro di classe, il conflitto sociale, la lotta contro vecchie e nuove diseguaglianze, e la sinistra in cerca di sé. Nel dibattito aperto da l’Unità con un articolo di Paolo Franchi, interviene Christian Ferrari, membro della Segreteria nazionale Cgil, già Segretario generale Veneto.
“Scontro sul salario: la lotta di classe è il motore della politica”. Questo è il titolo che l’Unità ha dato a un articolo di Paolo Franchi che ha dato vita ad un dibattito molto ricco di contenuti e plurale nei punti di vista. Lei come la pensa?
Un primo effetto, lo scontro sul salario minimo, lo ha avuto: rimettere al centro del dibattito politico un termine, ‘salario’ appunto, scomparso da decenni dal vocabolario pubblico. Le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare sono state sostituite, nell’immaginario e nella narrazione, da tanti aspiranti Steve Jobs e Mark Zuckerberg che, nel chiuso dei loro garage o delle loro stanze da universitari, inventavano il prodotto che li avrebbe resi ricchi. La realtà si è incaricata di smentire la favola, e ora ci costringe a misurarci con un sistema economico in cui crescono diseguaglianze, povertà, sfruttamento. Tutto questo è accaduto perché la lotta di classe non è finita nel 1989, ma è proseguita e la stanno vincendo i ricchi, come ricordava proprio Paolo Franchi citando Warren Buffet. Gli effetti di questo processo sul nostro Paese sono visibili più che altrove. Dal 1990 a oggi i salari sono calati, mentre in Francia e Germania sono cresciuti a doppia cifra; la precarietà del lavoro ha superato ogni record, colpendo soprattutto giovani e donne; la povertà assoluta è triplicata negli ultimi 10 anni.
Per cambiare questa situazione bisogna innanzitutto unire e ricomporre un mondo del lavoro, che scelte politiche e processi produttivi hanno diviso, frantumato, perfino contrapposto. È il presupposto di qualunque battaglia politica e sindacale per riequilibrare i rapporti di forza.
Per restare alla questione della lotta di classe. A tal proposito, rimarca Franchi: “La sinistra se l’è scordata. A partire da quando, al Lingotto, nel 2007, si negò che potesse esistere qualunque contrasto tra ‘padroni’ e lavoratori. Se la sinistra non torna a dar voce agli sfruttati, è spacciata”.
Indubbiamente la crisi della sinistra politica dipende dall’aver progressivamente smarrito la sua funzione storica: la rappresentanza e la tutela del lavoro e dei ceti popolari, come perno e motore di un progetto di cambiamento, di progresso e di democratizzazione del modello economico e sociale. Ma il problema non nasce al Lingotto, viene da più lontano, dalla controffensiva alle conquiste sociali lanciata – negli anni ’80 – da Reagan e Thatcher, che diede avvio alla cosiddetta ‘modernizzazione regressiva’. Dall’interpretazione di quella svolta storica, di quella nuova egemonia è derivata anche la frattura tra il Psi di Craxi e il Pci di Berlinguer. Lo ha spiegato bene Alfredo Reichlin: “In quegli anni cambiava il mondo e finiva la lunga fase democratica del dopoguerra, in cui lo sviluppo del capitalismo si coniugava con la democrazia. C’era una controffensiva delle forze padronali a livello mondiale e noi, la sinistra, ne eravamo le vittime. Craxi era per l’adattamento, secondo Berlinguer bisognava resistere”. Nel decennio successivo si è andati ben oltre l’adattamento, ci si è convinti che la storia fosse davvero finita, che non esistesse più un’alternativa al turbocapitalismo e che compito della politica fosse quello di limitarsi ad accompagnare le dinamiche di mercato, magari riequilibrandone gli aspetti più aspri. Se pensiamo che, nel 1970, lo Statuto dei lavoratori con cui la Costituzione finalmente varcava i cancelli delle fabbriche, fu votato da tutti i partiti dell’arco costituzionale, con l’astensione del Pci, ci rendiamo conto di quanto l’intero asse della politica sia ruotato verso destra. È in questa subalternità politico-culturale, nel far coincidere il “riformismo” con il “neoliberismo”, nell’introiettare le ricette degli avversari, che la sinistra ha perso se stessa.
Franchi annota che la vicenda del salario minimo sembra avere riportato nel dibattito la nozione di sfruttati e sfruttatori. Il governo sta con gli sfruttatori. E la sinistra? Al di là delle dichiarazioni di circostanza, non ha smarrito la centralità della lotta contro le diseguaglianze e per i diritti sociali?
Imparando dagli errori commessi, la sinistra oggi ha un’occasione da non perdere: darsi l’obbiettivo di affrontare una questione salariale che, in Italia, è ormai ineludibile. Un’emergenza da affrontare attivando tutte le leve a disposizione: il rinnovo dei contratti nazionali, politiche economiche e fiscali redistributive, il rilancio del welfare pubblico e universale. Sono 10 milioni le persone che lavorano con contratto scaduto. E la battaglia per i rinnovi rappresenta la priorità della nostra mobilitazione, che porteremo avanti nei confronti del Governo – che stanzia risorse nemmeno lontanamente sufficienti a recuperare il potere d’acquisto perso da 3 milioni di lavoratori pubblici – ma soprattutto nei confronti delle nostre controparti, che non possono ‘scaricare’ la questione salariale sulla politica e sul fisco, e che vanno invece richiamate – con la contrattazione, e anche attraverso il conflitto – alle loro responsabilità. In questo contesto, la convergenza su una proposta unitaria di tutta l’opposizione sul salario minimo è stata un primo segnale molto importante. Sul piano squisitamente sociale, perché ha riportato al centro dell’agenda politica i 3 milioni e mezzo di persone che sono povere pur lavorando, ma anche sul piano del merito, visto che la proposta definiva un salario minimo non alternativo, ma a sostegno della contrattazione collettiva. E che la direzione fosse quella giusta, lo dimostra proprio la reazione scomposta della destra di fronte a una necessità che ha dalla sua la forza delle cose e delle contraddizioni reali, e un consenso largamente maggioritario anche tra i suoi elettori. Poi, certo, il salario minimo non basta. Penso, ad esempio, alla sfida cruciale della rivoluzione tecnologica. Il processo di digitalizzazione deve essere patrimonio di tutte e di tutti, l’aumento – potenzialmente enorme – della produttività che ne deriva non può essere appannaggio del solo capitale, come di fatto sta avvenendo. Se questa grande trasformazione sarà democratizzata e declinata socialmente, potrà davvero sprigionare potenzialità straordinarie per l’intera umanità. In caso contrario, servirà solo a concentrare ancor di più potere e ricchezza.
I critici, anche nella sinistra “Ztl”, dicono che i salari sono bassi perché è bassa la produttività.
Questo è un classico dogma del pensiero neoliberale, smentito da tutte le evidenze e che va completamente rovesciato. Noi abbiamo bisogno di politiche industriali che smettano di puntare sulla svalutazione del lavoro e sulla competizione di costo, e che scommettano – per dirla alla Sylos Labini – sulla ‘frusta salariale’: per invertire il segno della distribuzione primaria del reddito a favore della quota lavoro, e per costringere il sistema delle imprese a stare sul mercato abbandonando la “via bassa” e spingendo invece su investimenti e innovazione. C’è – in sostanza – un tema di “modello” sociale e di sviluppo, un tema del tutto estraneo a un Governo che non intende ‘disturbare chi vuole fare’, e che continua a puntare sulla parte più arretrata, meno innovativa e a più basso valore aggiunto del nostro sistema produttivo. Serve, invece, un forte intervento pubblico che programmi, indirizzi e sostenga una profonda trasformazione della nostra struttura produttiva. A partire da una conversione ecologica di cui la prima a non essere convinta è una destra negazionista anche sul cambiamento climatico.
Vista dalla Cgil, che destra è quella che governa oggi l’Italia?
“Sociale” in campagna elettorale, neoliberista al governo. Proprio su lavoro, rappresentanza e democrazia sta concentrando un’offensiva che investe lo stesso modello sindacale e di relazioni. Puntando apertamente a dividere il campo tra un sindacato di governo e un sindacato di opposizione. Nella convinzione che non siano i lavoratori a scegliere da chi farsi rappresentare, ma sia Palazzo Chigi a decidere chi riconoscere e legittimare. Emblematica la gestione di questa manovra di bilancio, senza alcun coinvolgimento delle parti sociali rappresentative; per arrivare a un attacco senza precedenti al diritto di sciopero, rivelatore di una più ampia torsione autoritaria e corporativa. La nostra gente, però, non si è lasciata intimidire. E la riuscita degli scioperi dimostra che sempre più persone non condividono l’inerzia con cui il governo assiste all’impoverimento di milioni di lavoratori e pensionati, causato da un’inflazione – da profitti e da speculazione – che va avanti ormai da oltre due anni. Se a tutto questo aggiungiamo il premierato, ci rendiamo immediatamente conto dell’idea di paese che hanno in mente: una democrazia svuotata di partecipazione (con un astensionismo che cresce con il diminuire del reddito), senza corpi intermedi forti, in cui ogni cinque anni si viene chiamati a firmare una delega in bianco all’uomo o alla donna soli al comando. Senza dimenticare l’Autonomia differenziata, che aggiungerebbe alla competizione sociale anche quella territoriale, mettendo ancora più in difficoltà le classi popolari. Il nostro compito è respingere, con tutti gli strumenti democratici a disposizione, il tentativo di sovvertire la Costituzione nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro, per affermare una proposta alternativa di cambiamento, e un’altra idea di Repubblica e di società, tenendo sempre insieme la questione istituzionale e democratica con la questione sociale.