Tic concettuali
Guerra Israele-Palestina, non esiste un “unico modo”: c’è sempre un’alternativa alla violenza
Ogni visione troppo deterministica nega la infinita varietà e imprevedibilità della realtà. E anzi, dire che si tratta dell’”unico modo” fa diventare logicamente inevitabile, cogente qualsiasi azione.
Editoriali - di Filippo La Porta
Nasrallah, capo di Hezbollah, ha dichiarato che il pogrom del 7 ottobre è stato l’unico modo per rilanciare la questione palestinese. Israele dice che radere al suolo Gaza è l’unico modo per snidare Hamas.
Soffermiamoci su questo tic concettuale. “Unico modo”. In realtà non c’è mai nell’esistenza umana un “unico modo”. Ogni visione troppo deterministica nega la infinita varietà e imprevedibilità della realtà. E anzi, dire che si tratta dell’”unico modo” fa diventare logicamente inevitabile, cogente qualsiasi azione.
Nella Divina commedia il diavolo è logico (“loico”), consequenziale, aristotelico: “per la contraddizion che nol consente”. Il punto è che, insisto, nelle cose umane non c’è mai una e una sola soluzione possibile. Tutto dipende dalla immaginazione morale e dalla nostra buona volontà. Faccio un passo indietro.
Mia madre, una donna sinceramente cattolica e di straordinaria mitezza, mi diceva che a questo mondo niente si ottiene senza violenza. Forse è vero – non faceva che riecheggiare il Manzoni dell’Adelchi – però mi chiedo: con la violenza si può ottenere molto, quasi tutto, ma a che prezzo? L’uso della violenza sfigura chi la compie, e chi la subisce, per sempre!
I bolscevichi vinsero, è vero, ma proprio perché hanno vinto con la violenza hanno creato un regime autoritario. La mia generazione scese in piazza per un Vietnam “libero” (liberato cioè dal governo-fantoccio sostenuto dagli americani) – e personalmente ne sono orgoglioso! –, ma quando l’esercito nord-vietnamita nel 1975 arrivò a Saigon, e diede vita al nuovo Stato, ci furono un milione di deportati nei campi di rieducazione e un altro milione di profughi che scapparono con imbarcazioni di fortuna (i boat people), in fuga da uno sterminato gulag.
Vincere con mezzi violenti è possibile, ma diseducativo, e ci plasma irreparabilmente per tutta la vita. L’analisi più lucida resta quella di Simone Weil, la guerra distrugge ogni umanità in chi la combatte (ci permette di uccidere qualcuno senza rimprovero!), la spada trasforma per sempre chi la impugna e chi la subisce, e ogni guerra – come la Guerra di Troia – smarrisce i suoi obiettivi originari e serve solo all’affermazione del proprio prestigio.
Ne abbiamo dialogato, Luca Cirese (giovane comunicatore ambientale e giornalista) ed io in un libretto recente (che appartiene più a lui), Non possiamo non dirci nonviolenti. Probabilmente la violenza non è interamente eliminabile dal nostro orizzonte, dalla storia della nostra specie. I partigiani si sono impegnati quasi sempre a contenerla – anche per merito delle donne partigiane – senza pretendere di eliminarla.
Solo il fatto di vivere comporta una violenza verso altri esseri, siano pure microrganismi… Che fare? Intanto possiamo da un lato indicare i molti esempi di nonviolenza “efficace” nella Storia: misteriosamente ignoti ai più, ne ha parlato soprattutto la storica Anna Bravo, da poco scomparsa (correte a leggere i suoi libri luminosi!).
Poi quando la violenza non sembra evitabile – e si tratta di casi eccezionali – bisogna sforzarsi di regolarla e limitarla. La legge del taglione, lungi dall’essere una regola barbarica, nasce proprio da questo, dall’impedire una violenza sproporzionata (una cosa che Netanyahu sembra dimenticare).
Perfino il Codice di Hammurabi (XVIII secolo a.C.) intende dare una misura alla giustizia. L’umanità, consapevole che la violenza non si può espungere del tutto, ha tentato in tutti i modi di ritualizzarla e codificarla. Sapendo che in ogni caso le sue conseguenze saranno distruttive per tutti.
Martin Luther King così si esprimeva negli anni ‘60: “Nonostante le sue vittorie temporanee, la violenza non porta mai a una pace duratura, non risolve nessun problema sociale, ma semplicemente ne crea nuovi e più complicati: è impraticabile perché è una spirale discendente che si conclude con la distruzione di tutti, ed è immorale perché cerca di umiliare l’oppositore piuttosto che guadagnare la sua comprensione…”
Torniamo alla logica diabolica. Nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco vennero uccisi 11 atleti israeliani. Il giornale del gruppo “Il Manifesto”, cui appartenevo, fece uscire un editoriale non firmato – vado a memoria, e potrebbe trattarsi di un’altra azione terroristica – in cui pur disapprovando l’omicidio politico e la ferocia dei terroristi diceva che si trattava dell’unico modo per manifestare i propri diritti da parte dei palestinesi.
Ecco di nuovo quel tic. Torniamo al diavolo. Per Dante il diavolo è iperlogico, sofistico, ma è al tempo stesso anche stupido – letteralmente non capisce niente – per la ragione che non crede nella bontà umana. Ne diffida, la ritiene una una maschera strumentale. Quando l’angelo gli sottrae l’anima del condottiero Bonconte da Montefeltro, pentitosi prima di morire, ringhia beffardo “per una lagrimetta….”. A dire che secondo lui l’angelo si è fatto fregare da un piantarello in fin di vita (quei versi Pasolini li mise in epigrafe al film Accattone).
Eppure la bontà esiste – benché spesso sommersa – in tanti gesti e comportamenti individuali, bisognerebbe dagli più visibilità e anche più organizzazione. C’è sempre una alternativa ai metodi violenti, che risolvono apparentemente i problemi, creando però problemi nuovi, e umiliando l’avversario. Immaginare ogni volta questa alternativa appartiene a una logica umana, non diabolica.
Questo l’insegnamento di Tolstoj, Gandhi, Aldo Capitini, Bertrand Russell, Martin Luther King. Dobbiamo farlo però partendo da noi stessi, dal nostro quotidiano. Non ci si chiede di diventare eroi e stenderci a terra di fronte a una carica di polizia a cavallo, come fece Gandhi. Più umilmente suggerisco un esercizio immaginativo di empatia, anche per le nostre infuocate discussioni di questi giorni, con amici e conoscenti: per una volta ognuno di noi deve impegnarsi a sostenere una ragione dell’avversario. Anche questo è, nel suo piccolo, educazione alla nonviolenza. Almeno proviamoci.